Paradossalmente, a dare una mano a Matteo Renzi è - senza saperlo - il solito Luigi Di Maio.
Con il suo improvviso dietrofront sul confronto (da lui chiesto) col segretario Pd, giustificato con la scusa che dopo la sconfitta annunciata in Sicilia non sarebbe più lui il frontman del centrosinistra, l'aspirante premier di Pomigliano d'Arco ha messo in difficoltà quei dirigenti dem che avrebbero voluto aprire la contesa interna sulla leadership già nella direzione Pd convocata per il 13 novembre. Tanto che il ministro Andrea Orlando, capo della minoranza di sinistra, ha immediatamente replicato al grillino: «A Di Maio sfugge un particolare: che noi scegliamo il leader con un metodo democratico».
«Voglio vedere chi sarà il primo a dire che non sono il candidato premier del Pd», diceva Renzi alla vigilia del voto. «Chi vuole mettere in discussione la mia leadership si faccia avanti», ribadiva ieri. Sapendo che nessuno ora lo farà esplicitamente. Dario Franceschini, con cui ieri il segretario Pd ha avuto un colloquio, resta allineato: «Non chiedo un cambio di leadrship ma un'alleanza vera con la sinistra». Lo stesso Orlando non alza più di tanto il tiro («Certo Renzi è stato eletto segretario, ma non ancora imperatore», è l'unica battuta che si lascia sfuggire). Quanto a Paolo Gentiloni, che molti tra i Dem indicano come il candidato premier «non divisivo» che potrebbe riaprire il dialogo a sinistra, non si sa ancora se riuscirà a partecipare alla Direzione, visto che per quello stesso giorno era stato convocato (ben prima) il tavolo governo-sindacati.
«Nella direzione non ci sarà nessuno scontro - assicura un dirigente renziano - siamo tutti in modalità pre-elettorale, e non si litiga prima delle elezioni». Anche perché ci sono le liste da compilare, e bisogna trattare col segretario. Si respira però nel Pd un'aria di sospensione che sa di quiete prima della tempesta. «La stessa - confida un esponente navigato - che si respirava quando si preparavano a far fuori Walter Veltroni: tutti allineati e coperti fino a quando non vedono il momento giusto per vibrare la coltellata finale. Solo che Renzi non è Walter, e non si arrende».
È vero che ci sono due elementi di consolazione nel voto siciliano: il Pd, alla fine, ha preso esattamente gli stessi voti che prese nel 2012, quando vinse con Crocetta. E il candidato della sinistra scissionista Fava, per il quale fino a venerdì Bersani è andato a far comizi, e che aveva l'indiretto imprimatur di Pietro Grasso, è andato assai male: addirittura meno voti di quanti ne prese il candidato di Sel da solo. Un flop pesante per Mdp, che non ha sottratto neppure un voto al centrosinistra. Ma sono consolazioni magre, visto che resta il problema di tornare competitivi e di allargare il bacino elettorale, costruendo una coalizione di cui al momento non si vede ancora traccia. Anche perché, sulla base dei dati di ieri, le proiezioni dimostrano che, con il Rosatellum, il Pd non conquisterebbe neppure un collegio.
Ieri ha suscitato curiosità l'incontro tra Giuliano Pisapia e Pietro Grasso: l'ex sindaco di Milano, che nei piani dei Dem dovrebbe diventare il capofila di una lista alleata di sinistra radical, è andato a sollecitare il presidente del Senato, aspirante premier di Mdp, a ricompattare la sinistra per non «regalare il paese alle destre». Con un obiettivo chiaro: costruire un «grande rassemblement» che metta insieme Grasso, Bersani, Boldrini, Bonino e chi più ne ha più ne metta, e fare un'alleanza con il Pd, sì, ma a patto che Renzi si faccia da parte.
Grasso non avrebbe respinto le sollecitazioni. È l'assist perfetto che la fronda Pd anti-Renzi attende per far saltare il leader. Prima, però, l'operazione deve riuscire a decollare, e a sinistra come si sa mettersi d'accordo in più di uno è in genere proibitivo.
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