«Con devozione filiale», e pure con «deferenza e rispetto», Matteo Renzi manda un messaggio preciso al Colle: «Sulla legge elettorale, il Pd non farà il capro espiatorio».
Tornato con pieni poteri in sella al Pd, con un partito blindato di cui è dominus assoluto grazie alle primarie, l'ex premier spiega che non si farà mettere in mezzo neppure dal Quirinale, e che la moral suasion di Sergio Mattarella sulla necessità di dare al Paese nuove regole per il voto deve rivolgersi verso altri bersagli. A cominciare da quel fronte del «no no no» che ha vinto il referendum «promettendo che in pochi mesi avrebbe fatto una grande riforma molto più bella della nostra». E che «vi ha preso in giro, cari elettori, perché in sei mesi ha fatto solo il Cnel, non la grande riforma». Ora l'onere spetta a loro, e il Pd renziano si mette sull'Aventino: «Abbiamo proposto l'estensione dell'Italicum, il Mattarellum, il tedesco. Ci siamo sentiti dire solo dei no. Ora facciano loro: non saremo noi a farci inchiodare sulle responsabilità della classe dirigente che ha voluto il No».
È significativo il fatto che il leader Pd si rivolga così direttamente al capo dello Stato (cui ricorda anche, tra le righe, di aver fatto passare in cavalleria il mini-golpe nella commissione Affari Costituzionali del Senato, dove è stato eletto un presidente con i voti delle opposizioni contro il candidato Pd), per segnalare che «questa è la nostra parola definitiva». Renzi insomma si tira fuori dal pasticcio della legge elettorale, spiega ai suoi che «Berlusconi non favella, quindi evidentemente gli va bene lo status quo; Di Maio si fa avanti ma ci deve dire a nome di chi parla visto che Grillo cambia idea ogni giorno» e si mette alla finestra. Con una convinzione non dicibile: in Parlamento non si troverà nessun accordo, e alla fine toccherà al governo fare un mini-decreto per le modifiche essenziali (la «omogeneizzazione» tra Camera e Senato, che in pratica si ridurrà all'estensione dei capilista bloccati anche a Palazzo Madama). E infatti Andrea Orlando, ora capo della minoranza Pd, annusa l'aria e si mette di traverso: «Vedo una strada sola: quella di una legge di cui noi assumiamo l'iniziativa».
A Paolo Gentiloni, che siede in prima fila all'assemblea dell'Hotel Marriot, Renzi assicura piena lealtà e collaborazione: «Stiamo dalla parte del governo, nessuno di noi lo metterà in discussione». In discussione no, ma sotto controllo sì: il leader democrat annuncia che serve «un nuovo metodo di lavoro», e che d'ora in poi ci saranno «riunioni settimanali» tra Pd e esecutivo per coordinarsi meglio, una sorta di «cabina di regia». Si comincia già giovedì prossimo, alle 13. La durata dell'esecutivo, assicura Renzi, «non dipende dal Pd», ma solo da Gentiloni. Insomma, non sarà mai lui ad intimare l'altolà. Ma in casa renziana c'è chi spiega che lo scenario potrebbe essere il seguente: entro giugno, si prende atto che sulla legge elettorale il Parlamento non cava un ragno dal buco, e il governo si acconcia a fare il mini-decreto. Per poi tirare le somme e dichiarare esaurito il proprio compito, in tempo per votare «subito dopo le elezioni tedesche», a metà ottobre.
Ma nel governo non la si pensa esattamente così: il premier è disponibile a togliere le castagne dal fuoco al Pd col decreto, sollevandolo dalla responsabilità di una mossa impopolare come quella dei capilista bloccati. Ma con calma, «a ottobre» dice un esponente Pd. In modo da andare al voto non prima di febbraio o marzo 2018. Resta da vedere chi la spunterà.
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