Fughe e proteste: i russi non ci stanno. Le dimissioni del direttore del Bolshoi

Esauriti i treni per Helsinki. Manifestazioni in 59 città contro l'aggressione e 5mila arresti. Lascia Sokhiev: "Io per la pace"

Fughe e proteste: i russi non ci stanno. Le dimissioni del direttore del Bolshoi

Si salvi chi può. Senza retorica e con un biglietto in tasca per la Finlandia. Helsinki ha potenziato i collegamenti ferroviari con San Pietroburgo: 400 km in 4 ore. Ma i biglietti scarseggiano. Chi trova la forza di scendere in strada prova intanto a mostrare quella dignità che il popolo russo non ha perso neppure all'undicesimo giorno di guerra. Gli angoli dove vengono ricacciati i cittadini anti-Putin sono però sempre più bui. Ieri qusi 5mila arresti per cortei. Solo a Mosca, 1.700: su 2.500 persone in piazza. Manette in 35 città, tra cui Vladivostok e la città siberiana di Irkutsk. E multe fino a 60mila rubli (450 euro) per i partecipanti a picchetti che «screditano le forze armate».

Ecco perché la fuga dalla Federazione si intensifica: da un regime di bugie e manganellate facili, di propaganda e minacce costanti. L'ultima riguarda l'Europa. Una nota del ministero degli Esteri annuncia infatti azioni legali contro presunti «atti di discriminazione» a danno dei cittadini russi all'estero. «Aggressioni a camionisti russi e bielorussi in Germania, Polonia e Italia». Tutte da verificare, come pure gli episodi di auto con targhe russe danneggiate.

La pagliuzza impedisce al regime di vedere la trave negli occhi della Federazione, fissi sull'obiettivo dichiarato ancora ieri da Putin: mangiarsi l'Ucraina con morsi militari se non si sottometterà alle sue condizioni. E mentre la mobilitazione prosegue in 59 città russe, pur con i suoi limiti, la maggioranza silenziosa trova canali per mostrare l'orrore in corso per mano dello zar. Bacheche di bar e ristoranti di Mosca e San Pietroburgo invase da recensioni con foto da Kiev: così anche un'opinione pubblica sommersa dai tentativi di oscurare ciò che succede a pochi km dal confine può vedere quel che i media non trasmettono.

Piangono chef e imprenditori della ristorazione che assistono al progressivo isolamento. Non tutti condannano però l'invasione. Vladimir Muhin del bistrot White Rabbit di Mosca rivela all'Ansa d'essere stato privato del riconoscimento inseguito per 20 anni: le stelle Michelin. Tolte a tutti gli esercizi russi. «Ci hanno sbattuti fuori anche dalla lista World's 50 Best chef». Lamenta un clima ostile, Muhin, che venendo da 5 generazioni di cuochi sovietici se la cava dicendo di essere «per la pace, questa la mia unica risposta» alle vicende in corso.

Chi ha più coraggio scandisce «No alla guerra» gridandolo a Mosca: «L'Ucraina non è il nostro nemico». In piazze, strade, vicoli. Tra i fermati di ieri, davanti al Cremlino, pure l'attivista Oleg Orlov della Ong Memorial, chiusa dalle autorità perché giudicata «agente straniero». Oltre al veterano dei diritti umani, fermata ieri la già candidata al Nobel per la Pace Svetlana Gannushkina, 80enne. Il regime di Mosca non guarda in faccia a nessuno e vuol mettere al tappeto gli ultimi presìdi della stampa libera come Mediazona, il cui editor Pyotr Verzilov rinnova la promessa: «Raccontare l'invasione». A oltranza. Intanto lasciano il Paese anche Netflix e Tik Tok, dopo la nuova legge sui media.

Chi non china la testa continua a essere fermato. Altri, nel dubbio, danno le dimissioni come ha fatto ieri il direttore del Teatro Bolshoi di Mosca, Tugan Sokhiev.

Sotto pressione per prendere posizione, si dice «contrario a qualsiasi conflitto da sempre, e sempre lo sarò». Ovd-Info, sito per i diritti umani, parla già di 13mila detenzioni da inizio invasione. E in Kazakistan, alcuni attivisti ieri hanno piazzato palloncini gialli e blu in mano a una statua di Lenin.

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