Guerra in Israele

Gaza, tutti gli ostacoli al piano di pace

Netanyahu ribadisce la sua linea dura: "Nessuna resa a Hamas e niente Stato palestinese"

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Un piano spalmato su 90 giorni, che inizierebbe con una nuova tregua, con il rilascio di tutti gli ostaggi civili israeliani in cambio di centinaia di prigionieri palestinesi, e proseguirebbe, fino a chiudersi, con un lento ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza e con la fine della guerra. Dopo lo stallo diplomatico di quasi due mesi, seguito all'ultima tregua del 30 novembre nei combattimenti fra Hamas e Israele, Stati Uniti, Egitto e Qatar sono al lavoro perché i due contendenti ricomincino a discutere di un accordo mediato, scrive il Wall Street Journal. Le posizioni dei terroristi islamici di Gaza e del governo israeliano, sul campo e nelle dichiarazioni, non potrebbero essere più distanti. Da una parte Hamas continua a pretendere «la fine dell'aggressione israeliana» e in un documento diffuso ieri, in cui definisce la strage del 7 ottobre «un passo necessario», rifiuta «categoricamente qualsiasi piano internazionale o israeliano per decidere il futuro della Striscia di Gaza». Non solo. Per soffiare sulle divisioni interne a Israele, il braccio armato dei terroristi, le Brigate Al Qassam, si rivolgono alle famiglie degli ostaggi, le più critiche nei confronti di Benjamin Netanyahu e fanno leva sulla loro angoscia e rabbia: «La scelta è vostra, se volete recuperare delle bare o persone vive. Il vostro governo sta mentendo, il tempo sta per scadere».

Dall'altra parte, il premier israeliano Netanyahu sbatte ancora la porta in faccia a una soluzione a due Stati: «Finché sarò premier io, continuerò a sostenere il no a uno Stato palestinese». Si vanta di non averne permesso la nascita finora: «La mia tenacia ne ha impedito la creazione». E promette di non voler sottostare ai ricatti degli integralisti islamici: «Nessuna resa a Hamas, che chiede la fine della guerra, l'uscita delle nostre forze da Gaza, il rilascio di tutti gli assassini e gli stupratori delle forze Nukhba», tuona «Bibi». «Se fossimo d'accordo, i nostri soldati sarebbero morti invano», commenta, senza perdere occasione di ringraziare gli Stati Uniti per il sostegno, ma chiarendo la sua intenzione di voler «salvaguardare gli interessi vitali» dello Stato ebraico.

Tutto sembra chiudere alla possibilità di una trattativa. Ma la macchina diplomatica composta dalla triade Stati Uniti, Egitto e Qatar, consapevole dei pericolosi rischi di un conflitto prolungato e temendone l'allargamento, non smette di lavorare per una svolta, nell'interesse reciproco dei due belligeranti. Secondo il Wsj, i mediatori hanno stilato un piano in tre fasi, spalmato su tre mesi. La prima fase prevederebbe una tregua e il rilascio di tutti gli ostaggi civili israeliani (soldati esclusi) in cambio del rilascio di centinaia di prigionieri palestinesi, di un aumento significativo degli aiuti umanitari a Gaza e della fine dell'uso dei droni a scopo di sorveglianza a Gaza. Una seconda fase contemplerebbe la liberazione delle soldatesse israeliane in mano a Hamas, in cambio della liberazione di altri prigionieri palestinesi. Infine una terza fase porterebbe Hamas al rilascio dei soldati maschi israeliani, in cambio della ridistribuzione delle forze israeliane al di fuori dei confini della Striscia di Gaza. Le due parti, secondo il Wsj, avrebbero accettato di impegnarsi in discussioni mediate, pronte a ricominciare in questi giorni al Cairo, in Egitto, dove sarebbe già volato il consigliere della Casa Bianca per il Medioriente, Brett McGurk.

La speranza è appesa a un filo. Ma la retorica del nemico è un'arma che sia Hamas che Netanyahu, in questo momento, potrebbero considerare più utile di qualsiasi cessate il fuoco

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