Londra. Quando la sera del 2 aprile il ministro della sanità Matt Hancock si è presentato per il giornaliero incontro con i giornalisti il governo inglese stava vivendo giorni difficili. Sia il primo ministro Johnson che lo stesso Hancock erano stati colpiti dal virus e confinati in quarantena mentre il resto dell'esecutivo non stava dando risposte certe a un Paese tramortito dalla crisi. Il ritorno di Hancock fu un successo, risposte sicure, piglio deciso, autorevole. E un numero servito alla stampa per sottolineare che la macchina era tornata in carreggiata: 100mila test giornalieri per il coronavirus entro fine aprile. Quel giorno ne erano stati condotti poco più di 4400, l'incremento promesso con tanto di data di scadenza era portentoso. Da allora quel numero sta inseguendo Hancock, la stampa inglese ricorda continuamente la promessa del ministro e conta i giorni: il governo si dice fiducioso di riuscire a rispettare la scadenza ma pochi ci credono. Secondo l'ultimo dato disponibile i test effettuati sabato sono stati quasi 29mila.
La difficoltosa rincorsa del Paese a un regime di test dai numeri simili a quelli tedeschi ha molte spiegazioni. Innanzitutto, come riconosciuto dallo stesso governo, la capacità iniziale del Regno Unito era molto bassa, non essendo l'industria medico-farmaceutica inglese paragonabile a quella della Germania. A complicare le cose, poi, è stata una politica inizialmente ondivaga: poco prima di metà marzo, dopo aver ammesso che il virus non si poteva più contenere, il governo ha abbandonato l'obiettivo di testare più gente possibile, salvo poi fare marcia indietro qualche giorno dopo. Una confusione iniziale aggravata da una domanda mondiale di tamponi e reagenti schizzata alle stelle. Quei 100mila test giornalieri, quindi, avevano il sapore della riscossa. Che però non c'è stata né l'azione governativa è stata in grado di coordinare il cambio di passo necessario. L'asso nella manica di Hancock era rappresentato dai test per rivelare la presenza degli anticorpi in una persona, ma circa 20 milioni di kit si sono dimostrati inaffidabili: tutti buttati nel cestino. Coinvolgendo anche laboratori privati e università si è raggiunta una capacità per processare ogni giorno circa 40mila test (della presenza del virus, non degli anticorpi), ma il numero di quelli condotti è di circa 10mila in meno, ben lontani dalla storia di successo raccontata il 2 aprile. Che ora rischia di trasformarsi in un boomerang per il ministro della sanità.
Quando la crisi sarà passata e si cercherà di capire cosa è andato storto nella risposta governativa, Matt Hancock è il candidato numero uno per il ruolo di capro espiatorio. Salutato al ritorno dalla malattia come il salvatore dell'esecutivo, potrebbe mantenere quelle aspettative accollandosi mediaticamente le colpe di una risposta governativa finora non all'altezza. Lunedì Johnson tornerà a Downing Street, il periodo di convalescenza è durato meno del previsto e il primo ministro si rimetterà al lavoro. Il principale compito che lo aspetta sarà mediare tra i diversi ministeri e definire una strategia di uscita dall'attuale blocco del Paese, una fase 2 che caso unico in Europa non è stata ancora definita.
Secondo i dati di ieri i morti in ospedale hanno sorpassato i 20mila (oltre 800 in un giorno), una soglia mantenendosi al di sotto della quale si sarebbe raggiunto un buon risultato, secondo il capo consulente scientifico del governo inglese. Un dato che in realtà sottostima il totale non tenendo conto ad esempio dei decessi nelle case di riposo e che racconta di un Paese ancora a metà del guado.
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