«Il governo, lo dico oltre che agli italiani anche a Bruxelles, è al lavoro. Con determinazione, forse non colta del tutto da qualcuno, ma che per quanto ci riguarda è molto chiara». Ha assistito per giorni in silenzio allo scontro nel Pd, alle fibrillazioni nella maggioranza, alle voci convulse su una possibile fine molto prossima della legislatura, e quindi del suo esecutivo. Poi, ieri pomeriggio, il premier Paolo Gentiloni è sceso in sala stampa a Palazzo Chigi, al termine del Consiglio dei ministri, e ha mandato un messaggio pacato - come nel suo stile - ma assai chiaro. Che indica un orizzonte ambizioso e l'intenzione di non giocare di rimessa per gestire l'ordinaria amministrazione: c'è «un'agenda di riforme» da completare e un Def da preparare, e Gentiloni vuole «andare avanti» su questa strada. In Italia ci sono «segnali positivi» di crescita, e il governo «si dedica con tutte le sue energie e con lungimiranza a questo: ad un percorso per dare più crescita e sicurezza. Il messaggio che voglio dare è proprio quello di un governo impegnato al lavoro con grande determinazione, forza e sicurezza». E «sarebbe un errore politico micidiale - aggiunge - se il governo deprimesse o dissipasse questi segnali».
È una risposta alle bacchettate dell'Europa, certo, ma anche e soprattutto alle pressioni che arrivano da molto più vicino, e che negli ultimi giorni hanno alimentato tensioni tra esecutivo e principale partito di maggioranza, scaricandosi in primo luogo sul ministro dell'Economia e sulla sua complessa trattativa con la Ue, con una serie di ultimatum di esponenti del Pd renziano sulle scelte da fare. Tanto da far circolare nel Palazzo la voce di una crescente irritazione del ministro Pier Carlo Padoan: «Se il cannoneggiamento non viene sospeso - spiegavano i ben informati - Padoan potrebbe seriamente pensare di mollare. E allora si aprirebbe una situazione assai difficile, che potrebbe ritorcersi contro il Pd in primo luogo». Anche perché, aggiungono le stesse fonti, «visto che nessuno vuole andare a votare, non è detto che se cade questo governo non ne possa nascere un altro, e assai meno amico del Pd». Scenari ancora vaghi, che presuppongono una spaccatura del partito renziano assai più devastante di quella attualmente in corso con la scissione bersanian-dalemiana, e un futuro ruolo attivo del capo dello Stato nella gestione di un'eventuale crisi. Fantapolitica, per ora, ma Matteo Renzi è avvertito: meglio non tirare troppo la corda. Perché negli ultimi giorni, nonostante l'assenza dell'ex premier volato in Usa, l'allarme per un tentativo renziano di accelerare il voto entro l'estate è tornato a suonare, alimentato anche dal braccio di ferro in corso nella commissione sul congresso Pd, dove gli uomini del segretario dimissionario insistono per tenere le primarie a inizio aprile (in tempo perché Renzi sia in sella prima dell'ultima data utile per sciogliere le Camere e votare a giugno), mentre gli altri puntano alla metà di maggio. Con Orlando ed Emiliano che avvertono: «O si va a maggio, o Renzi il congresso se lo fa da solo».
Una cosa è certa: lo scontro congressuale nel principale partito di maggioranza agita parecchio le acque attorno al governo e scatena le guerre tra correnti.
Orfini alza la voce dettando una linea di sinistra al governo su economia e ius soli anche perché deve tenere i suoi, attirati dalla candidatura di Andrea Orlando. Che già toglie pezzi alla maggioranza renziana, da Luciano Violante a Anna Finocchiaro al governatore del Lazio Zingaretti.
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