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Già in 39 via dal governo. BoJo non vuole mollare: assedio a Downing Street

Dimissioni a catena, attacchi in Parlamento. L'ultimo appello della squadra di fedelissimi

Già in 39 via dal governo. BoJo non vuole mollare: assedio a Downing Street

«Se pensate che lui cambi ora, siete dei matti». Così ha dichiarato a Times Radio ieri l'ex capo dello staff di Boris Johnson, Will Walden, parlando del suo ex boss. E in effetti il capo di governo più controverso degli ultimi decenni è testardo come un mulo. Dopo le dimissioni a sorpresa del Tesoriere Sunak e del ministro alla Salute Javid a causa della mala gestione del caso Pincher, BoJo non ha pensato neppure per un attimo ad andarsene e per dimostrarlo ha provveduto a trovare dei rimpiazzi nella stessa serata, promuovendo alle Finanze Nadhim Zahawi e alla Sanità Steve Barclay. Non si sa come abbia dormito visto la durissima giornata che lo attendeva. Le news del mattino gli hanno portato la notizia della defezione di altri cinque ministri insieme alla mazzetta dei giornali nazionali che lo davano per spacciato.

Mentre circolavano alcune indiscrezioni sulla soddisfazione del premier per essersi finalmente tolto di mezzo il Cancelliere Sunak, restio a non tagliare le tasse, gli abbandoni da parte di ministri e sottosegretari continuavano a raffica e nel pomeriggio avevano già raggiunto quota 38. Dopo un feroce scambio di battute con il leader dell'opposizione Keir Starmer durante il question time (che ha accusato tutti i sostenitori di Johnson di non avere «una briciola di integrità»), l'ormai ex ministro Javid ha voluto fare una dichiarazione pubblica in Parlamento per spiegare le ragioni delle sue dimissioni. «Quando è abbastanza è abbastanza - ha detto in un discorso sentito, ma misurato - sono giunto alla conclusione che i problemi e gli scandali del governo partono dal vertice e questo non cambierà». «I ministri che hanno deciso di rimanere nell'esecutivo hanno le loro ragioni per farlo, ma devono sapere che questa è una loro scelta attiva» ha concluso l'ex ministro, sottolineando la grave responsabilità di chi ancora si ostinava a sostenere Johnson. Il quale, dal suo scranno ai Comuni ha tentato di difendersi ottenendo soltanto alcune risate di scherno e le richieste di elezioni anticipate da parte dei laburisti e del leader del partito nazionale scozzese Ian Blackford.

Alla domanda se domani sarebbe stato ancora primo ministro ha risposto senza indugi con un «certamente», sottolineando che di tutto ha bisogno il Paese meno che di nuove elezioni. Poi, per non farsi mancare nulla si è sottoposto al fuoco di fila delle domande della Liaison Committee, la Commissione parlamentare in cui convergono tutte le singole commissioni e che una tantum si riunisce e può chiedere al premier conto di qualsiasi argomento. Quella di ieri si è focalizzata soprattutto sulle conseguenze che l'appoggio britannico alla guerra in Ucraina potrà avere sull'economia interna e sulle concrete possibilità di Johnson di riuscire a convincere gli altri Paesi a tenere una posizione unitaria contro Putin. E mentre BoJo passava da una graticola all'altra senza un attimo di tregua, in diretta tv e in rete si consumava il dramma mediatico di un premier deciso a non mollare la presa e dei ministri rimasti, intenzionati a convincerlo a lasciare.

Poiché legalmente non esiste alcun appiglio per cacciarlo - essendo BoJo sopravvissuto al voto di fiducia dello scorso mese - una delegazione dei suoi fedelissimi tra cui Piri Patel, Michael Gove (in serata sollevato dall'incarico dallo stesso Johnson), Kwasi Kwarteng, Grant Shapps e lo stesso neo ministro alle Finanze Zahawi si è recata ieri in serata a Downing Street a parlare con il premier per tentare di convincerlo a una resa dignitosa.

E sullo sfondo già si staglia la battaglia per la sua successione.

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