Milano Sono spariti su una vettura del consolato libico a Milano, coperta da immunità diplomatica, senza che nessuno dei medici cercasse nemmeno di fermarli. Via, verso Roma, e da lì - di nuovo, incredibilmente indisturbati - verso Tripoli. I due cittadini libici svaniti nel nulla il 13 gennaio dopo avere accoltellato un connazionale sono ora al centro di una inchiesta assai delicata della Procura di Milano, che si muove sul terreno complesso degli accordi tra governi, forze di polizia, servizi segreti, con sullo sfondo il dramma del conflitto in quella che era una volta la Jamairiya di Gheddafi ed è adesso un coacervo di fazioni in lotta tra di loro.
Il pm Alberto Nobili, capo dell'ufficio antiterrorismo della Procura milanese, sa di muoversi su un terreno minato. Ma sa anche che è necessario capire in qualche modo cosa è successo: le cause dell'accoltellamento, le modalità della fuga. Ma ancora, un passo indietro: capire quali accordi regolino l'afflusso di feriti e di ammalati in Italia provenienti dalla Libia, nel contesto di quella che per ora, più che una azione umanitaria, appare uno scambio di favori dai contorni in parte oscuri.
Così ieri pomeriggio, con tutte le cautele dovute al suo status, viene convocato e interrogato dalla Digos il console libico a Milano. Un interrogatorio lungo, perché il diplomatico non può - evidentemente - cavarsela dicendo di non saperne niente, visto che proprio dal Consolato proveniva la vettura con autista che ha imbarcato i due feritori. Buio fitto sul contenuto dell'interrogatorio, la Procura si è presa un paio di giorni per cercare di dare un senso compiuto alla faccenda. Di fretta non ce n'è, visto che i due ormai sono fuori portata.
L'accoltellamento avviene, a quanto se ne sa, all'interno del Hotel Raffaele, l'albergo a ridosso dell'ospedale San Raffaele che è punto d'appoggio consueto per le famiglie dei degenti. Ma nell'hotel da qualche tempo alloggiano ospiti un po' particolari: sono libici, prevalentemente militari, che arrivano a Milano per essere curati nell'ambito di un accordo tra il Vaticano e il governo libico. L'accordo prevede il ricovero al San Raffaele, che non è più da anni una struttura confessionale ma continua ad avere rapporti privilegiati con la gerarchia ecclesiastica. Attualmente una ventina di libici sarebbero ancora ricoverati nei reparti, altri sarebbero stati trasferiti nell'hotel per terminare la fase di riabilitazione. Ed è tra tre esponenti di questa singolare colonia libica che esplode la lite il 13 gennaio. Volano coltellate, e uno dei tre - 32 anni - finisce al pronto soccorso dell'ospedale adiacente. Il ferito fa i nomi dei connazionali che lo hanno colpito, le loro stanze vengono perquisite. Ma la mattina dopo, quando la polizia torna a cercarli, di loro non c'è più traccia.
Ieri il pm Nobili scopre che a portarli precipitosamente a Roma è stata una vettura consolare, e il profumo di «barbe finte» che aleggia sulla vicenda si rafforza. A smosciare un po' il clima c'è, a dire il vero, il profilo non altissimo dei libici ospiti del San Raffaele, che pare non abbiano esattamente l'aria degli 007. Il ferito, che è stato ieri interrogato a lungo anche lui, è parso persino in difficoltà ad esprimersi compiutamente.
Ma questo semmai rafforza l'interrogativo che da ieri gli inquirenti si pongono: come vengono scelti, i libici feriti o malati da portare a Milano? Chi decide, tra le migliaia di vittime del conflitto in corso, quali sono i privilegiati destinati ad essere curati non in un qualche ospedale di Tripoli ma nel comfort del San Raffaele? Al console, verosimilmente, questa domanda è stata fatta. Ma c'è anche qualcun altro che conosce, o dovrebbe conoscere, la risposta: la segreteria di Stato del Vaticano.
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