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Giorgia l'africana, dall'Algeria fino a Tripoli

Così oggi il premier vuole recuperare un ruolo centrale nel continente nero

Giorgia l'africana, dall'Algeria fino a Tripoli

Giorgia Meloni ora guarda lontano. La missione in Algeria è per il Presidente del Consiglio solo il primo atto di una strategia che deve riportarci nel cuore di quel continente africano dove da vent'anni e passa i nostri governi non esercitano più alcuna influenza. Dopo gli accordi energetici con Algeri la prima tappa obbligata è la riconquista della Libia, la «quarta sponda» su cui da almeno cinque anni non siamo più potenza di riferimento. A Tripoli come in Algeria si ripartirà dall'Eni. Oltre ad un'esperienza sessantennale durante la quale è stata nave scuola per i vertici della Noc, (l'azienda petrolifera libica) l'Eni gode indiscussa considerazione per le capacità d'individuare nuovi pozzi e insediamenti. Quel che non può fare l'Eni lo può sistemare la nostra intelligence. Gianni Caravelli, Direttore dell' Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) ha gestito per anni il dossier Libia dialogando con tutti i protagonisti del marasma post gheddafiano. Né Caravelli, né l'Eni possono però garantire una forza militare capace di dare consistenza alle promesse politiche ed economiche dell'Italia. Un limite emerso nel 2019 quando la guerra tra le milizie del generale Haftar e quelle di Tripoli ha privilegiato l'ascesa di una Turchia che ha sfruttato la diretta partecipazione al conflitto per sottrarci il ruolo di potenza di riferimento. La forza militare - e la capacità di dispiegarla - è fondamentale non solo in Libia, ma in tutto un continente piagato da conflitti locali. Certo la dottrina Mattei, cara a Giorgia Meloni, si basa innanzitutto su accordi di collaborazione economica avviati d'intesa con l'Europa per fermare la piaga del rapace neo-colonialismo cinese. Un neo-colonialismo che depreda le risorse del Continente Nero ed è all'origine dell'immiserimento delle sue nazioni e dei flussi migratori verso il Mediterraneo. Ma proprio in questo contesto l'incapacità di fornire garanzie a partner ed alleati determina un'inevitabile esclusione. Lo dimostra una Tripolitania dove, nonostante addestramento e finanziamenti forniti dall'Italia, la Guardia Costiera non ci garantisce più il controllo dei flussi migratori mentre l'Eni, incalzata da Ankara, stenta ad aggiudicarsi contratti di prospezione e attività off-shore. Il discorso vale per tutto il continente Nero. La Somalia ce la siamo giocata nel 1993 andandocene al seguito degli Usa e abbandonando non solo una Mogadiscio assediata da signori della guerra e fondamentalismo, ma i nostri stessi interessi economici e commerciali. Anche lì la nostra eredità è passata nelle mani di una Turchia capace di garantire i propri interessi con le buone e con le cattive. Per ritrovare una rotta africana non possiamo, insomma, affidarci solo alle capacità di un'Eni impareggiabile nell'individuare nuovi pozzi e di concordarne l'equo sfruttamento con i partner locali, ma dobbiamo anche sviluppare una muscolatura capace di difendere gli interessi nostri e dei nostri partner. Oltre a ricreare una nostra macchina militare dobbiamo quindi muoverci d'intesa con chi già ce l'ha e può agire in sintonia con noi. Per questo - nonostante gli infelici trascorsi recenti è indispensabile trovare un «modus vivendi» con Parigi e sfruttare le debolezze di una Francia che - come dimostra la cacciata dei suoi soldati dal Mali e dal Burkina Faso - sconta i fallimenti della sua arroganza africana. Ancor più importante, in attesa di un'Europa ancora sorda alle sfide geopolitiche del Continente Nero, è il dialogo con Washington. Fino al 2018 il nostro ruolo in Libia è stato agevolato dal sostegno di una Casa Bianca consapevole della nostra capacità di interloquire con l'ex-colonia. Per riconquistarlo il governo Meloni dovrà saper vendere al giusto prezzo il suo ruolo di alleato in Ucraina. Un ruolo da riscattare su uno scacchiere africano dove la penetrazione cinese e quella russa da una parte e quella jihadista dall'altro stanno ridimensionando l'influenza di Washington. Per tornare in Africa, e non dirle più addio, dobbiamo, insomma, ricostruire le basi da cui partire.

E scegliere le cordate con cui raggiungerla.

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