Giovani, donne, "latinos" ma soprattutto indecisi. La rimonta in poche mosse

Rivincita del "machismo"? Sì, ma anche la vittoria di chi ha rotto gli schemi della geografia politica Usa

Giovani, donne, "latinos" ma soprattutto indecisi. La rimonta in poche mosse

La vittoria di Donald Trump è stata talmente inaspettata e talmente schiacciante, che non è esagerato parlare di rivoluzione: rivoluzione della gente comune contro l'establishment politico e finanziario di cui la Clinton era l'esponente, rivoluzione dei bianchi che diffidavano di una candidata democratica che contava soprattutto sul voto delle minoranze nere e ispaniche, e forse anche rivoluzione degli uomini contro l'idea di avere per la prima volta una donna come «comandante in capo». Qualcuno parla esplicitamente di una rivincita del machismo, di cui Trump è un perfetto esponente, sul femminismo che avrebbe dovuto mobilitarsi per portare Hillary alla Casa Bianca. Invece, la valanga di voti femminili a suo favore, prevista dopo alcune oltraggiose parole di Trump sulle donne, non c'è stata e in vari stati la sua mancanza ha fatto la differenza.

La ragione principale del trionfo del miliardario, tuttavia, è un'altra: al contrario della sua avversaria, sempre fredda e un po' altezzosa, ha saputo parlare alla pancia della gente, trasformando in voti il suo risentimento per la perdita di potere d'acquisto e di posti di lavoro causati dalla globalizzazione e portando alle urne una parte di quella «maggioranza silenziosa» che in America spesso se ne stava a casa. Per ottenere questo risultato, si è contraddetto molte volte, ha raccontato bugie, ha condotto una campagna elettorale volgare e di basso livello. Ma a chi voleva a tutti i costi il cambiamento non importava. Sebbene Trump fosse il candidato repubblicano, cioè del partito di destra, la maggioranza dei cosiddetti «colletti blu» e della borghesia medio-bassa hanno identificato in lui l'uomo che avrebbe potuto smantellare la nomenklatura responsabile dei loro guai e - rinegoziando in senso protezionistico i trattati commerciali - rendere loro giustizia. Il fatto che molti esponenti di spicco del partito gli abbiano voltato le spalle, nel timore di essere travolti da una sua disastrosa sconfitta, non sembra avere fatto molto effetto alla base. Ai seguaci di Trump potrebbero essersi aggiunti, paradossalmente, anche un certo numero di giovani che si erano battuti per Sanders nelle primarie democratiche avevano sviluppato un vero odio per Hillary. Solo nei prossimi giorni, quando il voto sarà stato analizzato e radiografato, sapremo quanti degli «arrabbiati» che hanno fatto vincere Trump sono democratici che come avvenne in occasione del trionfo di Reagan nel 1984, hanno cambiato casacca.

Nella geografia politica degli Usa le elezioni presidenziali si giocano al massimo su una decina di «swing states», o stati-pendolo, che a seconda del clima politico e della personalità dei candidati possono cambiare campo da una elezione all'altra: anzitutto la Florida (dove, come si ricorderà, nel 2000 Bush vinse per soli 534 contestatissimi voti), poi la Carolina del Nord, l'Ohio, la Pennsylvania e occasionalmente qualche altro. Il resto vota o sempre democratico, come New York e la California, o sempre repubblicano, come il Texas e gran parte del Sud e del Midwest. Hillary è partita favorita in quasi tutti gli stati in bilico (in particolare in Florida per via del grande aumento degli elettori «latinos»), tanto che a un certo punto la media dei sondaggi le dava il 93% di chance di conquistare la Casa Bianca; e ancora alla vigilia era considerata la favorita. Molti oggi ipotizzano che questi sondaggi fossero truccati o falsati dal fatto che molti cittadini erano restii a confessare di parteggiare per Trump. Ma non è così: sono stati gli indecisi, quelli che rispondevano non so o dicevano di non volere votare, che hanno permesso a Trump di conquistare magari con maggioranze risicate - non solo tutti gli «swing states» tradizionali della costa orientale, ma due tradizionali roccheforti democratiche del Nord come Michigan e Wisconsin, stati industriali che hanno visto chiudere molte delle loro fabbriche.

I media, che all'80 per cento parteggiavano per Hillary, hanno appiccicato a Trump l'etichetta di populista, accostandolo così ai partiti della protesta europei che infatti stanno tutti esultando per la sua vittoria. In comune, hanno soprattutto la battaglia contro l'immigrazione, che è stato uno degli strumenti del neopresidente per fare breccia a sinistra. Ha promesso (anche se difficilmente lo farà) di erigere un muro lungo il confine con il Messico per fermare i clandestini, di espellere una parte dei 12 milioni di irregolari che invece Obama e la Clinton volevano regolarizzare e nel momento di maggiore impatto del terrorismo, proposto addirittura di vietare l'ingresso nel Paese di tutti i musulmani. La cosa ha fatto presa soprattutto su quei bianchi che temono di diventare presto minoranza nel Paese.

Ora che, nel discorso della vittoria, ha doverosamente promesso di «essere il presidente di tutti gli americani», dovrà forse mettere un po' d'acqua nel suo vino. Ma ormai alla Casa Bianca è arrivato, e controllando anche Senato e Congresso, avrà ampia libertà di azione.

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