
Mettiamo insieme tre-quattro date per esplorare i meandri del pensiero trumpiano sull'Ucraina. Nel colloquio telefonico del tre luglio Putin tra le tante cose disse al presidente americano che aveva bisogno di 60 giorni per raggiungere i suoi obiettivi i militari. Nessuno ha mai smentito questa indiscrezione rimbalzata su diversi media e rimarcata dal braccio destro del povero Navalny, Leonid Volkov. Ancora: qualche giorno fa Trump ha lanciato un ultimatum a Putin annunciando che gli Usa metteranno sanzioni secondarie, cioè dazi del 100%, ai paesi che continuano a commerciare con la Russia. Appunto, ha spostato in là la scadenza rispetto ad una legge bipartisan che giace a Capitol Hill, firmata da 85 senatori su 110, che porrebbe subito dazi del 500% verso quei paesi che hanno rapporti economici con il Cremlino.
Terzo elemento: i tempi per far arrivare le armi promesse in Ucraina, almeno quelle americane, sono più lunghi di quelli che si possa immaginare perché, ad esempio, i sistemi anti-missili Patriot debbono essere costruiti, quindi, restano quelli che hanno in dotazione i paesi europei che dovrebbero privarsene per darli a Kiev. Infine - visto la connessione temporale tra il Putin che parla di 60 giorni per raggiungere gli obiettivi militari e del Trump che aspetta 50 dì per porre i dazi che dovrebbero isolare la Russia - si arguisce che non cambierà nulla da qui a metà settembre: ebbene, non bisogna aver letto Tolstoy, Guerra e Pace, conoscere i diari delle campagne di Napoleone o le cronache di questi tre anni di guerra per sapere che a settembre le prime piogge trasformeranno l'Ucraina in un pantano che bloccherà di per sé gli eserciti come avviene da secoli. Insomma, i tanti interventi sbandierati con la tempistica di Trump non avranno nessun effetto prima di quei sessanta giorni che Putin vuole per raggiungere i suoi obiettivi. Dopo di che saranno per buona parte le piogge a bloccare i russi. Ecco perché le sanzioni, le armi servono ora agli ucraini non fra 50-60 giorni.
Nessuno vuole mettere in dubbio le parole e i propositi del Presidente Usa ma come diceva Giulio Andreotti, che ha avuto a che fare per più di mezzo secolo con gli americani, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Un pensiero che nel tempo si è trasformato in un proverbio. Un proverbio che si attaglia benissimo a quella difficile disciplina, nuova di zecca, che dal venti gennaio scorso si occupa dell'interpretazione delle uscite contraddittorie - per usare un eufemismo - del Presidente Trump. L'altro giorno in 12 ore l'inquilino della Casa Bianca è partito con la promessa di inviare missili a lunga gitata a Kiev, si è saputo che ha chiesto a Zelensky se il suo esercito fosse in grado di colpire Mosca, quindi ha ordinato agli ucraini di non colpire la capitale russa e infine se ne è uscito con una frase degna di Ponzio Pilato: Io non sto né con la Russia, né con l'Ucraina. Per non citare il corollario che ripete a pie' sospinto: gli Usa possono inviare nuove armi a Zelensky, a cominciare dai famosi Patriots, ma deve pagarli la NATO o meglio gli europei.
Tornando al punto: non ho intenzione di mettere in dubbio la buona fede del Presidente americano ma se fossi in un mercato o in una casbah di fronte a tanti paradossi, stranezze e ripensamenti avrei la sensazione di stare
davanti al banchetto del gioco delle tre carte dove, come tutti sanno, si può solo perdere. E in questo caso a perdere saremmo tutti noi. Quel mondo, quella civiltà che sono le democrazie dell'Occidente. Spero di sbagliarmi.