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Il giurista rosso amato dal M5s che sognava il Quirinale

Iniziò con i radicali, poi preferì Berlinguer a Pannella. Era il candidato grillino sconfitto dal Napolitano bis

Il giurista rosso amato dal M5s che sognava il Quirinale

Se la conoscenza è patrimonio accessibile solo a chi ama, di Stefano Rodotà si può affermare con certezza che la sua anima fosse profondamente «costituzionale». Il diritto essendo il nucleo stesso del proprio amore, l'essenza della propria sete di conoscenza. Un «imponente e complicato edificio», nel quale Rodotà si è aggirato per tutta la vita con il rispetto e i passi felpati del galantuomo d'altri tempi. Cosa che non gli impediva di essere curioso dei nuovi, al punto da diventare uno dei massimi e più acuti esperti delle problematiche messe in moto dalla Rete Web.

Fa perciò un po' impressione, ora che se n'è andato a 84 anni, leggerne i messaggi di cordoglio e la riduzione di una personalità autorevole e complessa come quella di Rodotà al «campione politico dei Cinquestelle», all'uomo che per un accidente del destino fu sul punto di diventare presidente della Repubblica grazie all'iniziativa e all'impulso di un nucleo di parlamentari per caso, che in gran parte neppure lo conoscevano (e non di persona, ma come studioso) eppure ne scandivano il nome nell'aula di Montecitorio, battendo con i pugni sui banchi: «Ro-do-tà-ro-do-tà-ro-do-tà». Dileggio alla Casta seduta negli altri banchi, più che profonda consapevolezza che quel ruolo, Stefano Rodotà, avrebbe potuto meritarlo in altri tempi e con più autorevole candidatura. E invece diventò, nei convulsi mesi del 2013 successivi alle elezioni del «mancato vincitore», un candidato del Nuovo contro il Vecchio, o presunti tali. Cosa che ne carpì di sicuro un certo orgoglio e persino quel narcisismo che negli ultimi tempi pareva invece aver sedato. «L'ho consumato in tutte le cose che ho fatto, ora mi sento pacificato», ebbe a dire in un intervista. Così se Beppe Grillo lo ripagò dell'accondiscendenza con una battutaccia delle sue («ottuagenario miracolato dalla Rete»), il Gran Vecchio andrebbe legato piuttosto a un'altra delle battaglie ingaggiate negli ultimi decenni della sua mirabolante vita di professore: quella per difendere proprio la Costituzione da lui venerata dai tentativi renziani di modificarla in peius, senza logica e senso, senza il rispetto dovuto a quell'edificio creato dagli uomini per vivere in pace, per dare «il diritto di avere diritti», come lui predicava. Versione laica e laicista di deità, l'unica che uno come Rodotà avrebbe potuto ammettere.

D'altronde non sarebbe potuto essere altrimenti, per questo cosentino di origine albanese. Il padre era di San Benedetto Ullano; iscritto al Partito d'Azione, come altri di quella feconda generazione calabrese (il locale fondatore del Pd'A fu il papà di Elio Veltri), insegnò matematica anche a Giacomo Mancini, futuro segretario socialista. Lo zio era Dc, amica di famiglia Elena Croce, figlia di don Benedetto, che il giovane Rodotà cominciò a frequentare a Roma, dove si era trasferito per prendersi la laurea in giurisprudenza. Nel salotto della Croce conobbe Klaus Mann e Adorno; i suoi miti letterari, oltre a Balzac, erano i «mostri sacri» dl diritto Hans Kelsen e Max Weber. Il ragazzo cominciò a collaborare per il Mondo di Pannunzio, cenacolo di cultura radical-libertaria tante volte richiamato da Eugenio Scalfari (ma non risulta che Stefano la sera andasse in via Veneto, piuttosto restava a casa a studiare). A 22 anni un suo articolo era finito pure in prima pagina, e l'entusiasmo di certo aveva contribuito all'iscrizione al Partito radicale, unica tessera mai avuta. Nel frattempo la carriera universitaria aveva fatto il balzo: ordinario alla Sapienza, ha insegnato ovunque, anche negli States, a Oxford, in Francia, Germania, Canada, Australia e India. Quando nel '76 e nel '79 gli fu prospettata la candidatura da Marco Pannella, Rodotà rifiutò (forse con un eccesso di sussiego). La seconda volta preferendogli addirittura Berlinguer, che gli aveva proposto la «riserva indiana» degli Indipendenti del Pci. Più volte deputato, vicepresidente della Camera quando fu eletto Scalfaro nel '93 (fu lui a proclamarlo eletto), dal governo Prodi nel '97 venne nominato primo garante della Privacy, materia e ruolo pressocché sconosciuti in Italia. Lo inventò del tutto, ricevendo un'ottantina di ricorsi ogni giorno, cui sapeva dare puntuale e argutissima risposta. Lo avevano piazzato lì come nel cimitero degli elefanti, non sapendo come toglierselo di torno, dopo che aveva avallato la Bolognina di Occhetto e accettato di fare il presidente del Pds (creatura di cui aveva sognato diverso sviluppo). Una ricompensa ingrata, come le altre, da lui accettata con il solito caparbio e integerrimo amor fati. Costi quel che costi.

Mai irregimentato nelle file di un partito, non disdegnava la buona tavola, perché «l'investimento per una buona cena non va considerato di serie B rispetto a un libro o a un disco».

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