Milano Finora lo dicevano molti avvocati e qualche coraggioso, isolato giudice. Adesso lo dice la seconda carica dello Stato. E il tema della giustizia ingiusta diventa un caso istituzionale. Il presidente del Senato Elisabetta Casellati prende la parola in una cerimonia a Padova e denuncia lo scandalo che giorno dopo giorno si consuma nelle aule di tribunale italiane: i mille cittadini innocenti che ogni anno vengono sbattuti in galera per reati che non hanno commesso. Uno ogni otto ore. Dal 1992, quando Mani Pulite elevò i mandati di cattura a simbolo dell'efficienza giudiziaria, ventiseimila uomini e donne sono finiti in carcere sulla base di prove che non esistevano. «Donne e uomini illegittimamente privati della propria libertà e la cui vita affettiva, sociale e lavorativa è stata fortemente pregiudicata», dice la Casellati davanti agli avvocati dell'Unione delle camere penali.
È la prima volta che da una carica così alta si sceglie di puntare il dito sulla disinvoltura con cui si utilizzano le manette. «Sono numeri pesanti - ha ammonito la presidente del Senato - che non possono più essere sottovalutati e che ci obbligano a una necessaria riflessione sull'efficacia degli strumenti normativi finora predisposti per tutelare il massimo rispetto del diritto alla libertà personale, preservare il nostro sistema dal rischio di errori suscettibili di produrre conseguenze nefaste sulla vita degli imputati e le loro famiglie».
Sono tragedie, ricorda la Casellati, che non si chiudono con la scarcerazione, perché la vita degli innocenti finiti in carcere non è solo «danneggiata da una cattiva amministrazione della giustizia» ma è «spesso compromessa dalle conseguenze mediatiche di una misura cautelare o di una sentenza di condanna infondate sotto il profilo giuridico ma comunque sufficienti a radicare nella collettività un inestirpabile sentimento di condanna sociale». La sentenza dei talk show è una sentenza senza appello.
A sostegno della sua denuncia, la Casellati cita «l'ultima relazione sull'applicazione delle misure cautelari personali elaborata dal ministero della Giustizia». Sono dati che rispecchiano una realtà nota da tempo a chiunque frequenti davvero le aule di giustizia (bisogna ricordare che il presidente del Senato di mestiere fa l'avvocato) ma finora, incredibilmente, considerati tollerabili, come se una simile quota di assoluzioni fosse la fisiologica conseguenza della dialettica tra accusa e difesa. Anche il mese scorso, quando in tutta Italia vennero inaugurati gli anni giudiziari, nelle decine di relazioni degli alti magistrati questa emergenza non veniva citata. Con una sola eccezione: quella di Massimo Terzi, presidente del tribunale di Torino, che si definì «scandalizzato» dal numero di innocenti inghiottiti dal tritacarne giudiziario, «un sistema non conforme ai principi di democrazia».
La denuncia di Terzi sembrava caduta nel vuoto. Invece ora la Casellati rilancia l'allarme con tutta la sua autorevolezza. È vero, dice il presidente del Senato, che «nessun ordinamento può dirsi perfetto e immune da errori sul piano processuale», e che «errori possono verificarsi anche indipendentemente dalla sussistenza di profili di responsabilità in capo a chi li commette». I giudici, cioè, possono sbagliare anche in buona fede.
Ma proprio per questo la Casellati difende esplicitamente l'attuale struttura della giustizia penale, i tre gradi di giudizio che oggi molti magistrati vorrebbero limitare in nome dell'efficienza: la possibilità dei ricorsi «esprime la necessità di contenere quanto più possibile il verificarsi di tali anomalie e di garantire che il processo possa giungere alla sua conclusione naturale: l'accertamento della verità».
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