Tecnicismi e politica giudiziaria. Le infinite tonalità suggerite dai codici. Risultato: sul pallottoliere della giustizia un boss mafioso pesca le forbici per tagliare quel che recidere non si può: l'ergastolo. Ed esce dal carcere nonostante il ricorso della Procura generale di Palermo.
Storia intricata ma soluzione semplice quella adottata per Mico Farinella, condannato per omicidio ed estorsioni, mai un cenno di collaborazione con i magistrati. Farinella era in cella dal 1994, un quarto di secolo, non poco di questi tempi confusi e pasticciati, ma la fine della pena era fuori dal suo orizzonte. Il carcere a vita se l'era guadagnato con la somma di tre condanne pesantissime, rispettivamente a 12, 26 e 30 anni di galera. E qui tocca spiegare gli equilibri previsti dal legislatore. Nel nostro sistema la somma non fa il totale che non può superare la barriera dei trent'anni di pena. A meno che naturalmente non si finisca direttamente nell'imbuto dell'ergastolo e in questo caso tutto il castello dei ragionamenti crolla.
Ma c'è un'eccezione che risucchia il condannato verso la pena senza fine: se almeno due delle condanne sono a 24 anni o più, allora scatta l'ergastolo. È esattamente quel che era successo a Farinella. Sembrava finita e invece no. Il tallone d'Achille era nel procedimento concluso con i 26 anni di pena. Un reato satellite era stato cancellato dalla spugna dell'indulto. E la pena era scesa, sia pure di poco, sotto l'asticella dei 24 anni. Un buchino che ha fatto crollare la diga, nel pieno rispetto della norma.
L'avvocato Valerio Vianello ha avuto buon gioco nel dimostrare che l'ergastolo non stava più in piedi. E l'incidente di esecuzione, davanti alla corte d'assise d'appello di Palermo, si è concluso con il ricalcolo della pena. La procura generale ha provato a bloccare la corsa verso la libertà del detenuto, figlio di un personaggio di prima grandezza di Cosa nostra, Giuseppe, membro della commissione, e scomparso nel 2017.
Niente da fare. Come anticipato ieri dal Giornale di Sicilia, Farinella junior è già fuori. A beneficio si aggiunge beneficio e a sconto si somma sconto. La nuova pena appena definita, trent'anni, è stata subito intaccata dall'istituto della liberazione anticipata, con ulteriore, robusto bonus.
Nel lasciare il penitenziario di Voghera, Farinella è stato esplicito: «Non tornerò mai più in Sicilia». Un modo per non far accendere i riflettori degli investigatori sulle sue frequentazioni. L'uomo ha una parentela superiore alla sua caratura nel gotha mafioso e questo potrebbe nuocergli. Non solo il padre. La moglie è una Pullarà, nome che evoca lo storico clan di Santa Maria di Gesù e il cognato di Mico, Santino Pullarà, si prese trent'anni per aver partecipato con Farinella all'omicidio di Antonio Cusimano, avvenuto il 2 ottobre 1990. Non basta. La sorella di Mico è sposata con Francesco Franco Bonomo, considerato il reggente del clan di San Mauro, un paese delle Madonie.
Intrecci che portano lontano. Ma, intanto, mentre le forze dell'ordine ricostruiscono il non rassicurante albero genealogico, lui è oltre le sbarre. Senza restrizioni e limitazioni. Ancora una volta le equazioni della matematica giudiziaria travolgono la certezza della pena. Tutto perfettamente legittimo, ci mancherebbe.
Ma vallo a spiegare a un'opinione pubblica sempre più frastornata e sconcertata da sentenze contraddittorie e a volte incomprensibili. Una roulette che macina paradossi e genera sospetti e paure. Difficile scacciarli come cattivi pensieri.
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