La gonna vietata e il silenzio delle femministe

La gonna vietata e il silenzio delle femministe

La presidente della Camera Laura Boldrini era forse intenta a redigere il nuovo Dizionario Rosa, desinenze rigorosamente in essa e trice; o forse dettava agli eletti in Parlamento la lista delle leggi che lei ritiene, a suo insindacabile giudizio, da approvarsi entro la fine della legislatura, così volle, fortissimamente volle; oppure, bisognerebbe domandarglielo, con i collaboratori ultimava l'elenco, già abbozzato, dei monumenti da abbattere al fine di non urtare la sensibilità di qualche minoranza oppressa. Fatto sta che la voce della terza carica dello Stato, indefessa paladina del genere femminile globalmente inteso (di cui la stessa si ritiene somma interprete), è rimasta muta dinanzi al caso della ragazza saudita rea di aver passeggiato in minigonna. È accaduto a Ushayqir, sito storico a circa centocinquanta chilometri dalla capitale Riad, in una delle zone più conservatrici del regno saudita. La giovane donna, nota con il nickname «Khulood», è apparsa in video mentre cammina con indosso una minigonna e una maglia a maniche corte che lascia intravedere lembi di carne nuda all'altezza della schiena e del ventre. Così la celeberrima invenzione di Mary Quant, che destò scandalo agli inizi degli anni Sessanta nella Swinging London e nel mondo intero, si riappropria del suo carattere sedizioso e rivoluzionario nel Paese islamico che esercita un controllo totale sulla vita delle donne, in una roccaforte paternalista dove senza l'esplicito consenso del tutore maschio (un padre, un marito, un figlio) al gentil sesso è vietato guidare, viaggiare, accedere alle cure mediche, iscriversi all'università. Khulood ha osato violare una delle leggi più ferree, il divieto assoluto di comparire in pubblico senza l'abaya, il tradizionale camice scuro che copre l'intero corpo femminile, con l'eccezione di piedi, mani e testa. Nel giro di poche ore il filmato ribelle è diventato virale sui social network al punto da essere ripreso dalla stampa locale. La ragazza è stata identificata e arrestata dalla polizia del regno wahabita. Secondo fonti ufficiali, lei si sarebbe difesa spiegando di aver visitato il luogo insieme al suo guardiano, che non intendeva rendere pubblico il filmato, che non è stata lei a caricare la clip e che l'account su Snapchat non era il suo. Alla fine il magistrato ha ordinato la scarcerazione, Khulood è tornata in libertà nel giro di 48 ore. Poteva andare peggio nel Paese dove le donne vengono lapidate per adulterio o condannate a decine di frustate per aver esibito unghie laccate di smalto o altre amenità vagamente sensuali e, dunque, fuori legge. Succede così nei Paesi che confondono diritto e religione, codice morale e codice penale, applicando le regole della legge islamica secondo un'interpretazione letterale e fanatica. Islam alla sbarra, non abbiamo paura di dirlo.

Forse è per questo che la nostra presidente, attivissima nella campagna, scontatamente condivisibile, contro i cosiddetti «femminicidi» e, in genere, le violenze perpetrate da esemplari di maschio bianco cristiano, predilige invece un comodo silenzio contro l'intollerabile e sistematica violazione della libertà femminile in nome di Allah. Meglio guardare altrove. Una parolina, almeno una, neanche mezza.

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