Il primo a far scoppiare un nuovo caso politico sul decreto «salvarisparmio» è stato ieri mattina il capogruppo alla Camera di Forza Italia, Renato Brunetta. «Dopo che il testo è stato annunciato alla Camera giovedì 28 dicembre, veniamo a sapere che due giorni dopo, il 30 dicembre, il governo ha ritirato il provvedimento, spostandone l'esame al Senato», ha dichiarato l'economista denunciando «un'operazione procedurale alquanto anomala e irrituale».
A prima vista sembrerebbe, infatti, un tentativo di «eutanasia» del governo Gentiloni da parte della maggioranza Pd. Con i numeri ballerini che ci sono al Senato (i 169 voti di fiducia dello scorso 14 dicembre potrebbero, infatti, restare un unicum) l'incidente di percorso può sempre capitare. «Un comportamento incomprensibile soprattutto alla luce dell'ampia maggioranza con cui era stato approvato il provvedimento di autorizzazione (ad aumentare il debito pubblico di 20 miliardi, ndr) del Parlamento che ha preceduto l'emanazione del decreto», ha aggiunto Brunetta sospettando forzature «sulla pelle dei risparmiatori» e stigmatizzando la decisione dell'esecutivo.
Nella distribuzione dei provvedimenti, si apprende da fonti dell'esecutivo, è stato deciso che i decreti «salvarisparmio» e milleproroghe partano al Senato che ha un calendario meno affollato, mentre le misure per il Sud inizieranno il proprio iter a Montecitorio. Insomma, l'esecutivo ha deciso di presentare il testo del decreto alla Camera e poi di ritirarlo perché il regolamento di questo ramo del Parlamento non prevede la richiesta del numero legale, che in giornate prefestive al Senato rischia sempre di rappresentare una minaccia. Ordinaria amministrazione e niente più.
La spiegazione ufficiosa, tuttavia, risponde solo parzialmente alle questioni sollevate da Brunetta e rilancia un interrogativo: perché partire con il «salvarisparmio» proprio al Senato? Non a caso ieri il leader di Sc-Ala ed ex viceministro dell'Economia, Enrico Zanetti, ha alzato il prezzo del sì della componente civico-verdiniana a Palazzo Madama. «Vogliamo pari trattamento retroattivo anche per gli obbligazionisti subordinati delle quattro banche e vogliamo la commissione parlamentare d'inchiesta», ha affermato rilevando che è «troppo comodo chiedere senso di responsabilità quando si tratta di aumentare ai contribuenti il debito pubblico e non avere alcun senso di responsabilità quando si tratta di fare chiarezza per i cittadini». Una presa di posizione poco rasserenante.
In ambienti di Forza Italia si assiste con sereno distacco allo svolgersi degli eventi. È abbastanza diffusa la convinzione che il Pd e Matteo Renzi non cercheranno un pretesto per indurre l'esecutivo all'harakiri non avendo in mano la nuova legge elettorale. Si tratta della condizione necessaria allo scioglimento delle Camere posta il 31 dicembre urbi et orbi dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Allo stesso modo (e lo si può leggere in chiaroscuro nella stessa dichiarazione di Brunetta), c'è la consapevolezza che il Pd stia cercando di far leva in tutti i modi sul senso di responsabilità dei parlamentari azzurri.
Detto in altri termini, l'intento di Renzi e del suo clan è quello di scaricare sul partito di Silvio Berlusconi la colpa di un eventuale naufragio del decreto costringendolo da subito a votare a favore, con la non tanto recondita speranza di imbrigliare Fi anche nella trattativa sulla legge elettorale. Con la Vigilanza Bce e la Commissione Ue che ogni giorno cambiano le regole sui salvataggi bancari, alla pattuglia del Cav è chiesto di tenere i nervi saldi.
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