Il governo licenza Co.Co.Co. e Co.Co.Pro. liquidando in un colpo quasi dodici anni di gestione italiana (e creativa) del precariato. Le intenzioni sembrano buone, come sempre in questi casi. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, annunciando la novità, spiega che superare queste tipologie abrogandone le norme serve a ridefinire il confine tra lavoro autonomo e dipendente e a far emergere meglio le differenze tra le due tipologie. Ma questa è un'utopia lunga decenni. E secondo più di uno lo sbianchettamento rischia di essere poco più che un aggiornamento del vocabolario. «Sui Co.Co.Co. - spiega ad esempio il segretario confederale Cgil Serena Sorrentino - l'annunciato stop non è altro che un cambio nominale di contratto visto che è allo studio una loro ridefinizione. Del resto Poletti ci ha spiegato che sul precariato non poteva usare un bazooka per non rischiare un buco enorme». Lettura decisamente poco promettente.
Rivoluzione o bluff? Ai posteri l'ardua sentenza (e ci mancherebbe altro). Però certo fa una certa impressione vedere archiviata in pochi minuti un'intera generazione di precari 2.0, che ha popolato di sogni e speranze tutto il primo scorcio del nuovo millennio. Co.Co.Co. (collaboratori coordinati e continuativi) e Co.Co.Pro (collaboratori a progetto) furono infatti introdotti dal decreto legislativo 276 del 2003, la cosiddetta legge Biagi, quando il governo era il Berlusconi-bis, e vennero salutati allora sì come una vera rivoluzione. Potremmo dire oggi, con il senno di poi: 12 anni non schiavo. Certo, sopravvive il sospetto che la fortuna anche giornalistica di queste figure fosse dovuta soprattutto ai bizzarri acronimi ripetitivi e vagamente avicoli. Comunque pane per i denti di titolisti spiritosi e cabarettisti loro sì meritevoli di precariato. Una tra tutte, anno 2003: «Quindici anni dopo le ragazze coccodé ecco le ragazze cococo». Seguono risate.
Ma in realtà c'era pochissimo da ridere. Al funzionamento dei due meccanismi di lavoro «parasubordinato» affidò le sue speranze di sentirsi un po' meno precaria una mezza generazione di giovani lavoratori. La legge Biagi prevedeva infatti che la collaborazione coordinata e continuativa potesse essere applicata solo attraverso contratti a progetto (Co.Co.Pro.). Che dovevano essere «riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente» e che non potevano comportare attività meramente esecutivi o ripetitive. Ed essere «gestiti autonomamente dal collaboratori senza vincolo di subordinazione». Insomma, si nobilitava il precariato, garantendo al collaboratore un ampio margine di autonomia lo si riscattava da attività di infimo livello. Inoltre c'era anche il fattore dinero : il compenso doveva essere «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito» e mai inferiore «ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva per mansioni equivalenti».
La legge Biagi però prevedeva alcune possibili eccezioni al Co.Co.Pro., riesumando i contratti di collaborazione continuativa e coordinata (Co.Co.Co.) per alcuni casi: personale di pubblica amministrazione, pensionati di vecchiaia, addetti di società sportive o associazioni sportive riconosciute dal Coni, amministratori di società e liberi professionisti iscritti ad albi tenuti da ordini professionali.
In questo caso la collaborazione era caratterizzata dall'autonomia del lavoratore, dal coordinamento organizzativo operato dal committente, dalla personalità della prestazione, dalla continuità della collaborazione e da una retribuzione del tutto simile a quella del lavoro subordinato. Uno strano animale per metà dipendente e per metà autonomo. Un ircocervo che rischia l'estinzione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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