Una «legislatura costituente», per fare la riforma del bicameralismo e una legge elettorale che dia al Paese una maggioranza di governo. L'avete già sentita? Non è esattamente una novità, anzi è un ritornello che si ripete da decenni ad ogni impasse politico-istituzionale. A tirarlo fuori, stavolta, è stato Dario Franceschini, con un'intervista al Corriere della Sera che voleva essere, innanzitutto, un assist a colui che, per sua sfortuna, deve gestire la matassa senza capo né coda di questo inizio legislatura, ossia il Capo dello Stato. E può trovare orecchie attente nel centrodestra berlusconiano e anche nel Pd.
Con un coraggioso richiamo all'ottimismo (della volontà) il ministro della Cultura dice che, «rovesciando il punto di partenza» e iniziando non dal governo (per il quale nessuno ha i numeri) ma «dagli obiettivi» si può trasformare l'attuale pantano in «una svolta», ossia nel Parlamento che quella riforma mille volte tentata la fa davvero, a «larghissima maggioranza». L'alternativa, fa capire, è del resto un probabile fallimento, con elezioni ravvicinate: un incubo per quelle centinaia di neo-eletti appena arrivati in Parlamento, che chissà se ci tornerebbero. Franceschini mette sul piatto un'esca anche per i due sedicenti «vincitori», Salvini e Di Maio: una legge elettorale con premio di maggioranza. Perché se si tornasse a votare con il Rosatellum, anche i dioscuri del neo-populismo rischiano di ritrovarsi da capo a dodici. La riforma fornirebbe l'oggetto ad un «governo di scopo» sostenuto da tutti e allungherebbe il percorso della legislatura, con soddisfazione trasversale dei parlamentari. La proposta Franceschini, ingegnosa ancorché non originalissima, è stata però forse prematura: impegnati nelle loro schermaglie interne, i leader dei partiti non hanno reagito. Si vedrà se col tempo tornerà di attualità.
Intanto nel Pd il «reggente» Maurizio Martina lavora sottotraccia per costruire un organigramma che regga alle future intemperie. Nessuno lo dice apertamente, ma chiusa la fase del ciclone Renzi, che aveva travolto gli schemi del passato, ci si va riassestando sull'antico dualismo Ds-Margherita: se Martina, come probabile, si presentasse all'Assemblea di aprile come candidato segretario, la guida del partito tornerebbe in mani post-diessine, e questo pacificherebbe la tormentata anima ex Pci, che con Renzi si sentiva condannata all'estinzione, riaprendo anche canali di comunicazione con i fuoriusciti. Le due poltrone da capogruppo, quindi, andrebbero ai post-Margherita: le ipotesi sono molte, e Martina ci va con i piedi di piombo per evitare scontri ed arrivare ad una soluzione condivisa da tutti, anche da Renzi che per ora tace. Così circolano diverse proposte, da quella minimal della riconferma di Zanda (franceschiniano) e Rosato (renziano), all'elezione di Mirabelli (franceschiniano) e Guerini (pontiere renziano) o di altri. Vengono studiate varie formule e misurate le reazioni: il voto sarà a scrutinio segreto e può nascondere trappole.
Poi si aprirà la partita delle Commissioni: in assenza di una maggioranza, il Pd sarà in molti casi l'ago della bilancia tra centrodestra e grillini per eleggere i presidenti di tutti gli organismi parlamentari, e conta di poterne incassare qualcuna in cambio dell'appoggio. Quanto agli uffici di presidenza delle Camere, c'è già una candidata pronta a fare il vice (di qualunque presidente) a Montecitorio: Maria Elena Boschi.
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