Nel Paese degli spioni la privacy è soprattutto una chiacchiera da bar di cui nessuno si preoccupa davvero. Ma l'incrocio di un paio di norme che il Parlamento sta per avallare senza il minimo dibattito e mescolate in mezzo a leggi-minestrone, sta per abbassare di parecchio il già tenue livello di riservatezza che ci garantiscono internet e telefoni, aumentando la possibilità di essere tracciati, fino a far sorgere l'ombra della sorveglianza di massa con timbro dello Stato, ma senza vaglio della magistratura.
Quel sito poco raccomandabile che abbiamo visitato, magari perché un amico ce lo ha suggerito via mail, la telefonata a un numero sconosciuto, anche se digitato per errore, il video che abbiamo guardato, ma anche la foto pubblicata da un passante in cui compariamo per caso o il commento di un amico sulla nostra bacheca Facebook. Le nostre tracce sulla Rete che raccontano ogni cosa di noi, anche se non necessariamente ci dipingono in modo veritiero, sono uno strumento di indagine prezioso, se messe a disposizione di autorità legittime e competenti, ma anche una merce appetibile per chi ne fa commercio con gli scopi più diversi, dal marketing allo spionaggio. Questa mole di dati sta per rimanere inchiodata su internet per un tempo lunghissimo: sei anni. Un emendamento firmato da deputati Pd e M5S prevede l'allungamento di quattro anni rispetto all'attuale obbligo di conservazione dei dati in capo ai provider, la cosiddetta data retention. Il tema avrebbe meritato un dibattito approfondito, invece è finito nella cosiddetta Legge europea, il testo omnibus che viene approvato ogni anno per recepire in Italia le normative europee. L'Europa ha in effetti varato nel 2017 una direttiva anti terrorismo, che però prevede genericamente l'obbligo per gli Stati di dotarsi di «misure di indagine efficaci». E sul fatto che i provider, spesso piccole aziende, siano in grado di custodire efficacemente per un tempo così lungo i nostri dati, c'è più di qualche dubbio. «Più di qualcuno -commenta l'avvocato Luca Bolognini, presidente dell'Istituto italiano per la privacy- la corte di Giustizia europea nel 2014 ha definito sproporzionato il tempo di due anni e ora lo allunghiamo a sei. Ed è innanzitutto molto dubbio che un periodo così lungo di conservazione dei dati sia utile alle indagini anti terrorismo. E poi c'è l'impatto sulle aziende: conservare i dati con le modalità di assoluta sicurezza previste dal Garante della privacy ha un costo elevato. Se moltiplicato per la durata di sei anni, può diventare fatale per molte aziende».
E altrettanti dubbi sorgono sull'emendamento, presentato dal Pd Davide Baruffi, con cui si dà all'Agcom il potere di ordinare ai provider di rimuovere i contenuti che violano il copyright. Ma non basta: l'Agcom potrà anche ordinare di fare tutto ciò che è possibile tecnicamente per evitare che lo stesso utente pubblichi di nuovo quel contenuto su altri siti. Il che significa autorizzare una sorta di «pedinamento» sul web, semza avallo della magistratura, attraverso una sofisticata tecnica che si chiama Deep packet inspection. In sostanza una sorveglianza di massa.
«Equivale ad autorizzare un'autorità amministrativa, e non giudiziaria, a intercettare le persone - spiega Bolognini- qui siamo addirittura al di fuori della Costituzione». E la firma arriva dai partiti che gridavano allo scandalo per il datagate americano.
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