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Grecia e Spagna non distruggeranno l'euro

L'affermazione di Podemos e la paura che la Grecia non restituisca i prestiti al Fmi

Grecia e Spagna non distruggeranno l'euro

Ieri la Borsa di Milano ha ceduto il 2,09% tornando ad allarmare investitori e risparmiatori. Il mercato è stato trascinato al ribasso dai titoli bancari e finanziari che rappresentano gran parte del listino italiano. A spaventare è stato il successo elettorale di Podemos in Spagna (anche Madrid ha perso il 2%), ma soprattutto la paura che la Grecia non onori le prossime scadenze con i creditori, come domenica hanno dichiarato esponenti del governo di Atene, non avendo materialmente in cassa gli 1,6 miliardi che il 6 giugno devono essere rimborsati al Fondo monetario internazionale. Una situazione che, normalmente, significherebbe default, fallimento, come accaduto in Argentina nel 2001 (e, in parte, anche lo scorso anno). Ma qui le cose sono diverse perché c'è di mezzo l'euro. Quindi il problema non è quello di un solo Stato sovrano, ma riguarda il futuro della stessa valuta che sta nelle tasche di noi italiani e dei cittadini di altri 18 Stati dell'Unione Europea. E nessuno sa esattamente cosa potrebbe succedere se al default della Grecia seguisse l'uscita dall'euro. Ecco perché la cosa è preoccupante. Ma nello stesso tempo i dati e i fatti ci suggeriscono di contenere l'allarmismo. Due gli elementi principali: lo spread tra i rendimenti di Btp italiani e Bund tedeschi si è mosso poco, rimanendo in zona 120-125 punti.

La Borsa ha sì preso una batosta, ma il 2% di un indice che solo dall'inizio dell'anno è salito del 23% non è un segnale da «panic selling». Certo la situazione è grave. Ma bisogna vedere, giocando con l'aforisma di Ennio Flaiano, se sia anche seria. Grave lo è perché il tempo stringe e non si può pensare che un mancato rimborso all'Fmi non abbia conseguenze. Atene, oltre a non avere più soldi in cassa, ha problemi con la liquidità delle banche (ci sono 80 miliardi di esposizione extra con la Bce, mentre sono già usciti 32 dei 180 miliardi del totale dei depositi) e il bilancio pubblico fa ormai fatica a macinare entrate. Quindi serve un accordo tra creditori (oltre a Fmi e Bce, anche i Paesi Ue, Italia compresa) entro pochi giorni. In mancanza di questo, lo scenario peggiore non porterebbe benefici a nessuno. E soprattutto nuocerebbe al popolo greco, che si ritroverebbe nella terra di nessuno, impossibilitato ad accedere ai mercati finanziari e con un'economia così scarsamente industrializzata da avere ben poco da gioire dell'eventuale ritorno alla dracma. Non è un caso che ieri il Comitato centrale del partito di sinistra radicale del premier Tsipras, Syriza, abbia respinto a larga maggioranza sia il blocco dei rimborsi all'Fmi, sia la nazionalizzazione delle banche, sia il referendum sul blocco degli accordi con i creditori internazionali. Ecco perché i mercati, in fin dei conti, non credono agli scenari peggiori. E, anzi, interpretano le minacce greche come posizioni negoziali e le loro suggestioni come occasioni da sfruttare per entrare, con qualche sconto, su listini che restano super rialzisti.

Spinti dalle prospettive di ripresa in Europa e, soprattutto, dai 60 miliardi al mese con i quali la Bce sta comprando titoli dal marzo scorso (il «quantitative easing»). Ecco perché la scommessa più sicura pare essere quella di un accordo in extremis.

A rischio solo nel caso di un imprevedibile e irrazionale harakiri da parte dei greci.

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