Nel giorno in cui a Montecitorio si votano le mozioni sull'Italicum, la vera sorpresa arriva non dalla maggioranza (che si compatta su un testo che apre a vaghe modifiche), ma dai grillini.
Atterriti, e si può capire perché, dalle loro prime esperienze di governo, i Cinque Stelle riscoprono i pregi della Prima Repubblica, del pentapartito e dei governi ballerini. Con un ardito dietrofront, ieri i parlamentari di Grillo hanno messo sul piatto la loro alternativa all'Italicum, definito «antidemocratico e incostituzionale»: proporzionale puro, «senza alcun premio di maggioranza», e preferenze. La micidiale miscela che per quarant'anni ha fatto dell'Italia il paese con le crisi di governo più frequenti e le coalizioni più affollate del mondo occidentale, e che ha alimentato (grazie alle preferenze) cordate, correnti e finanziamenti illeciti nei partiti.
Solo poche settimane fa, esaltati dalla vittoria di Virginia Raggi e Chiara Appendino a Roma e Torino, i Cinque Stelle senza poterlo dire apertamente vedevano nell'Italicum e nel suo ballottaggio tra le liste più votate il grimaldello che poteva portarli al potere. Luigi Di Maio, che già si immaginava candidato a Palazzo Chigi, spiegava che modificare alla legge elettorale voluta da Matteo Renzi «non rappresenta per noi una priorità». Ora invece, dovendo presentare un testo nel voto di oggi, si torna indietro, e si ripesca dagli archivi la proposta ultraproporzionale di inizio legislatura, che dà la garanzia che le elezioni non vengano mai vinte da nessuno. Dunque al voto di oggi arriveranno una blanda mozione di maggioranza che auspica una «ricognizione parlamentare» sulla legge elettorale senza auspicare alcuna concreta modifica dell'Italicum, la mozione di Sel (presentata già prima dell'estate) che della legge in vigore dice peste e corna e ne chiede la soppressione, la mozione proporzionalista dei Cinque Stelle. Nessun testo invece da Forza Italia e Lega, che sostengono che «è inutile discuterne prima del referendum». Secondo il forzista Gregorio Fontana «quelli di Sel, che hanno chiesto questo inutile dibattito, stanno facendo un favore enorme a Renzi che così può mostrarsi aperto a cambiare l'Italicum, pur non avendone alcuna intenzione». Il Pd, come da tradizione, è diviso: l'assemblea del gruppo, che doveva tenersi ieri sera, è stata spostata a oggi pomeriggio, a ridosso della seduta, ma le posizioni sono già chiare. La minoranza reclamava «proposte concrete di modifica», che non ci saranno, e alla fine si spaccherà nel voto: diversi deputati della sinistra voteranno comunque la mozione di maggioranza, giudicandola «un'apertura», mentre il grosso dei bersaniani si defilerà dal voto. «Si sono infilati da soli nel cul de sac», commenta con i suoi Renzi, che si tiene fuori dalla tenzone spiegando che l'iniziativa a questo punto deve venire dal Parlamento: «Noi siamo totalmente disponibili a migliorare la legge: dopo Grillo, ora aspettiamo Berlusconi e Salvini così tutte le posizioni sono in campo e poi faremo le modifiche». Il retropensiero del premier è che una maggioranza alternativa sulla legge elettorale non ci sarà mai, perché ogni forza politica vuole modificare una parte diversa dell'Italicum: chi il ballottaggio, chi il premio alla coalizione anziché alla lista, chi le preferenze.
Quanto alla minoranza interna, e fine mese verrà convocata una Direzione allo scopo di «stanare», come dice Renzi, la minoranza: a fronte della sua reiterata disponibilità a discutere di Italicum, saranno loro a dover argomentare perché si schiereranno comunque per il No al referendum, accodandosi a D'Alema. E mettendo le premesse, in caso di vittoria del Sì, per una inevitabile scissione.
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