La Guerra inutile vinta soltanto dalle cattoliche

Fu davvero una "inutile strage" non solo perché ci costò 600mila morti, ma soprattutto perché aprì poi la strada al revanscismo fascista

La Guerra inutile vinta soltanto dalle cattoliche

Le cerimonie per il centenario della Prima guerra mondiale seguono lo stesso schema retorico sulla base del quale l'Italia era entrata in guerra nel 1915, passando dalla Triplice alleanza con le potenze centrali alla Triplice intesa con quelle periferiche e inaugurando la brutta fama che l'Italia non avrebbe mai finito le guerre dove, e con chi, le aveva incominciate. Con una maggiore accortezza diplomatica, se fossimo rimasti neutrali, avremmo ottenuto dalle potenze centrali concessioni territoriali analoghe ai guadagni che poi abbiamo raggiunto con la vittoria. L'Italietta contadina, povera e ignorante, nelle mani di una classe militare fondamentalmente impreparata e incapace, si buttò in un'avventura più grande di lei, facendo pagare al Paese i propri ritardi nel diventare una potenza mondiale.

Le decimazioni, delle quali, nel corso della guerra, furono vittime tanti innocenti soldati - le cui lettere, prima di morire fucilati, fanno ancora rabbrividire -, furono un atto di terrorismo pubblico tanto inutile quanto vergognoso che non servì a cancellare le poche diserzioni comodamente percepite da una gerarchia militare che faceva pagare alla truppa le proprie inefficienze. Le diserzioni altro non erano che il rifiuto di una guerra alla quale il Paese non era preparato e che rifiutava. Personalmente, non aderisco alle celebrazioni perché considero che la nostra partecipazione alla Prima guerra mondiale – per dirla col Papa – sia stata una «inutile strage» di 600mila uomini, per lo più contadini che non sapevano neppure perché erano stati precettati per combattere e morire. Era stata il trionfo politico della parte minoritaria e nazionalista del Paese che sognava una ridicola rivincita per il «Risorgimento tradito» esattamente come, a guerra finita, si sarebbe battuta per riscattare la «vittoria tradita» sempre secondo lo schema di un Paese che non aveva la forza di imporsi sul piano internazionale e trasformava tale debolezza in politica interna.

Aveva ragione Giolitti – il presidente del Consiglio che perpetuava in chiave amministrativa la tradizione liberale della Destra storica sconfitta nel 1876 dal trasformismo «degli affaristi e dei bottegai» - che non avrebbe voluto entrarci, e hanno avuto torto tutti quelli che – come il direttore del Corriere di allora, Luigi Albertini, una specie di Scalfari nazionalista e tardo liberale - si erano impegnati a convincere il nostro governo ad entrare in guerra.

Fu davvero una «inutile strage» non solo perché ci costò 600mila morti, spogliando la borghesia post-risorgimentale della sua futura classe dirigente caduta nell'inutile guerra, ma soprattutto perché, in nome di una retorica patriottarda, aprì poi politicamente la strada al revanscismo fascista, preparando le condizioni per la partecipazione alla Seconda guerra mondiale, come non bastasse, dalla parte sbagliata, per una sorta di tardivo e irrazionale pentimento del tradimento perpetrato nei confronti dell'Austria e della Germania e il conseguente passaggio alla Triplice intesa. La stessa accusa che, poi, ci avrebbero rimproverato gli irriducibili del fascismo dopo l'8 settembre 1943... Abbiamo pagato la partecipazione all'«inutile strage» con oltre vent'anni di dittatura fascista e l'improvvido e criminale ingresso nella Seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista, da cui ci ha riscattato solo l'assegnazione alla Resistenza di un significato salvifico non meno retorico del quale paghiamo ancora le conseguenze con una cultura politica dirigista e collettivista ereditata dal comunismo che ci avrebbe volentieri allineati ai Paesi dell'Europa centrale e orientale liberati dall'Armata rossa.

Se ci siamo in parte salvati, lo dobbiamo all'elettorato, in prevalenza di donne cattoliche, che il 18 aprile 1948, votando per la Democrazia cristiana di De Gasperi, ha allineato l'Italia alle democrazia dell'Occidente liberale.

piero.ostellino@ilgiornale.it

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