La guerra fra Trump e i media fa bene a televisioni e giornali

Il presidente e gli organi di informazione sono ai ferri corti. Ma è boom di lettori per New York Times e Washington Post

La guerra fra Trump e i media fa bene a televisioni e giornali

Se Donald Trump pensava che accusare quotidianamente i giornalisti di essere «nemici del popolo americano» fosse una tattica vincente, potrebbe essersi sbagliato. Infatti, la battaglia senza esclusione di colpi che la stampa «liberal» e alcune catene televisive, CNN in testa, stanno conducendo contro di lui ha almeno fino a questo momento - giovato sia al loro prestigio, sia alle loro casse. Il Washington Post, talmente scatenato contro il presidente da cambiare addirittura il suo vecchio motto in un inequivocabile «La democrazia muore nel buio», ha guadagnato nell'ultimo mese più di 150.000 tra abbonamenti cartacei e on line. Per il suo editore, il plurimiliardario proprietario di Amazon Bezos, i soldi guadagnati sono solo spiccioli, ma essersi messo all'avanguardia di una lotta che ha tutta l'aria di continuare fino a quando Trump occuperà la Casa Bianca rappresenta per lui un indubbio successo.

La violenta campagna di Trump contro i media sta diventando per questi ultimi un inatteso salvagente. Secondo i sondaggi, fino a ieri soltanto il 20% di americani avevano fiducia in loro, ponendoli al penultimo posto nella graduatoria delle istituzioni, appena davanti al Congresso che gode dei favori di solo il 9%. All'aumento della diffusione, dovrebbe corrispondere anche un aumento della fiducia, ancora non «misurato». Ma tutto è relativo. I progressi, infatti, sono stati fatti esclusivamente tra quella metà di americani che hanno votato contro Trump, e che in questo momento, orfani di un partito democratico ancora allo sbando dopo la disfatta, hanno individuato in giornali e TV «amici» l'unico baluardo contro le più controverse iniziative del presidente.

Questa funzione di surroga assunta dai media spiega anche l'accanimento con cui Trump ripete ossessivamente che sono faziosi e bugiardi, che si inventano le notizie, che vivono di «soffiate» illegali da parte di quella parte dell'apparato dello Stato tuttora fedele a Obama e che screditano il Paese agli occhi del mondo. Per i suoi attacchi, il tycoon ricorre a tutti gli strumenti possibili: è arrivato a escludere i corrispondenti del NYTimes e della CNN dalla quotidiana conferenza stampa del suo portavoce e subito dopo ha fatto sapere che non parteciperà all'annuale pranzo per i giornalisti accreditati alla Casa Bianca che nessun presidente (salvo gravi indisposizioni) aveva disertato dal 1924. Come in un incontro di pugilato, a ogni colpo di Trump segue una nuova offensiva dei giornali, e il gioco si sta facendo ogni giorno più duro: opinionisti famosi come Roger Cohen, Thomas Friedman e molti altri, stanno usando toni di una durezza che non si registrava più dai tempi del Watergate, e il presidente reagisce parlando di loro come se fossero gangster.

Chi vincerà alla fine questo inedito braccio di ferro rimane da vedere: se Trump ha dalla sua il discredito che affligge tuttora i media nella sua «America profonda», stampa e TV possono contare sui migliori giornalisti investigativi del mondo; e al presidente (e alla sua famiglia) non ne lasceranno passare una.

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