Hamas allo stremo, il sì di Israele. E per il piano le chiamate di Trump

I retroscena della firma: il ruolo del Qatar nella stesura formale durante l'assemblea Onu, poi le scuse di Netanyahu per il bombardamento. In Egitto negoziati in discesa

Hamas allo stremo, il sì di Israele. E per il piano le chiamate di Trump
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La creazione dei 20 punti del Piano Trump per Gaza, la presentazione ai Paesi arabi e musulmani, l'imposizione a Netanyahu delle scuse al Qatar per il bombardamento su Doha, gli incontri in Egitto e la sensazione che una svolta fosse possibile, la "stanchezza" di Hamas e il "sì" di Israele. È giovedì pomeriggio a Washington, quando la Casa Bianca convoca per una call un gruppo ristretto di testate giornalistiche americane e internazionali, tra cui il Giornale, per spiegare i retroscena dello "storico" accordo. Contemporaneamente, in Israele, gli inviati Usa Steve Witkoff e Jared Kushner si stanno recando alla riunione di gabinetto che dovrà approvare l'accordo. Di lì a poco, il via libera del governo Netanyahu e l'annuncio del cessate il fuoco.

Il piano, spiega ai giornalisti uno dei due alti funzionari della Casa Bianca collegati, è stato messo a punto "estraendo molti dei principi presenti negli altri precedenti negoziati". Poi, insieme al Qatar, il documento contenuto su un "foglio di carta" è stato "adattato e elaborato per renderlo più rigoroso". Nella presentazione a New York in occasione dell'Assemblea Generale dell'Onu ai Paesi arabi e musulmani, racconta il funzionario, "abbiamo iniziato a vedere molta positività". Col piano messo a punto, i negoziatori Usa rientrano a Washington, per presentare il documento finale a Trump e a Netanyahu riuniti nello Studio Ovale della Casa Bianca. È il 29 settembre. "Al piano erano collegate le scuse del primo ministro israeliano al primo ministro del Qatar. Andò tutto bene. Avevamo i contorni di un accordo".

Tappa successiva, l'Egitto. Mercoledì, Witkoff e Kushner volano a Sharm El Sheik. Nel frattempo, i negoziatori del Cairo, di Qatar e Turchia hanno iniziato le trattative con i rappresentanti di Israele e Hamas. Quando i due emissari di Trump si uniscono alle discussioni, la sensazione è che "i team tattici avessero già fatto parecchio". Si iniziano a discutere i dettagli del rilascio degli ostaggi, della liberazione dei prigionieri palestinesi e del ridispiegamento dell'Idf. Poi, prosegue uno dei funzionari Usa, la discussione "è stata ampliata a cosa sarebbe successo dopo, a quello che possiamo definire un cessate il fuoco quasi permanente, finché tutte le altre questioni che dobbiamo affrontare non saranno negoziate e considerate". Mercoledì sera, la discussione si accende, "vengono chiariti alcuni malintesi" sulla seconda fase del piano. I negoziatori americani chiamano al telefono Trump che "fornisce i suoi consigli sulle questioni ancora aperte". È a quel punto che "abbiamo avuto la sensazione di essere abbastanza vicini, che quasi tutte le questioni erano state affrontate e che eravamo pronti ad annunciare un accordo". Ci sono molte cose, in questa prima fase, che "possono ancora andare male", prima di passare alla fase succesiva. Eppure, "c'è una reale possibilità" di pace, spiega uno dei due funzionari americani.

Israele e Hamas hanno le loro rispettive motivazioni. Per Israele, c'è "l'opportunità di convertire le vittorie militari degli ultimi anni in vittorie politiche". Da parte di Hamas, "una generale stanchezza per come stava andando questa guerra, erano arrivati a considerare gli ostaggi più come un peso che come una risorsa". Fondamentale, in tutta la trattativa, la costante presenza, sebbene a distanza, di Trump.

Nelle fasi di stallo sono state decisive le sue telefonate "dirette" e "molto spontanee" coi vari interlocutori. "La cosa più importante su cui il presidente ha tenuto duro è stata chiarire che vuole che tutta questa guerra finisca, ma che poi non si torni a ciò che c'era prima".

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