Quella di Telecom è la storia di una privatizzazione mai completata. Con lo Stato che, attraverso la prima, la seconda e anche la terza Repubblica, è sempre rimasto a disturbare la «linea». Di questa storia vanno ricordati quattro capitoli che l'hanno condizionata fino a oggi: lo sbarco in Borsa del titolo Telecom, avvenuto nell'ottobre del 1997, l'Opa lanciata da Roberto Colaninno e soci nel '99, l'acquisto da parte di Marco Tronchetti Provera del 2001 e nel 2007 la presa del controllo da parte di Telco, costituita dalle banche italiane e dalla spagnola Telefonica.
Ma partiamo dall'inizio. Ovvero dal 1990, l'anno in cui si decide di accelerare lo sviluppo delle telecomunicazioni in Italia. Lo stesso anno in cui Fiat vende Telettra, importante società del settore, ai francesi di Alcatel, chiudendo la possibilità dell'integrazione con Italtel del gruppo Iri-Stet nel polo denominato Telit. In Italia c'è una piccola pattuglia di aziende pubbliche: la Sip, che gestisce le reti urbane, poi la Asst, azienda di Stato per le interurbane, la Italcable per le internazionali, la Telespazio per i satelliti. Nel 1994, con l'arrivo della Seconda Repubblica, dallo spezzatino riunito nasce Telecom Italia sotto la regìa dell'Iri, e del suo presidente Romano Prodi. Qualche anno dopo, è il 1997, il nostro Paese ha bisogno di credibilità e di soldi per entrare nell'Euro, Prodi diventa premier e schiera in campo la «squadra» delle privatizzazioni: Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro, Mario Draghi direttore generale del Tesoro (oggi presidente della Bce), Vittorio Grilli suo braccio destro. Vengono cacciati i boiardi Biagio Agnes e Ernesto Pascale e arriva il professor Guido Rossi.
Il 27 ottobre del 1997 Telecom, privatizzata, viene ammessa agli scambi in Piazza Affari: lo Stato incamera 26mila miliardi di lire e il controllo del gruppo passa a un nucleo di soci (tra azionisti del risparmio, delle banche e delle assicurazioni), capitanato dalla Ifil degli Agnelli, che detiene meno del 7% del capitale. Il risultato è che la Fiat, comprando lo 0,6% di Telecom, comanda. E sceglie i manager sostituendo subito il presidente Guido Rossi, con un ex dirigente del Lingotto, Gian Mario Rossignolo, che verrà poi mandato via in dieci mesi.
Nel novembre del '98 arriva infatti al vertice Franco Bernabè, reduce dai successi alla guida dell'Eni. Non fa in tempo a sedersi che parte la scalata di Roberto Colaninno con la sponda del socio-amico Chicco Gnutti: al timone della Olivetti si fa prestare i soldi dalle grandi banche internazionali e lancia un'offerta pubblica di acquisto, che si concluderà il 21 maggio 1999. L'Olivetti compra dal mercato il 51% di Telecom con un'operazione da 100mila miliardi di lire. A Roma brinda il presidente del Consiglio, Massimo D'Alema, inneggiando ai «capitani coraggiosi» della «razza padana», che ci mettono soldi veri. A spalleggiare Colaninno è anche il numero uno di Mediobanca, Enrico Cuccia. Ma l'operazione è molto pericolosa: il debito accumulato da Olivetti per l'Opa viene trasferito sulla stessa Telecom due anni dopo, attraverso una fusione. E da allora l'indebitamento diventa la zavorra per lo sviluppo del gruppo.
Così l'imprenditore mantovano va in difficoltà. La sua decisione di comprare Telemontecarlo, ribattezzarla La7 e usare i soldi di Telecom per sfidare Silvio Berlusconi (che vincerà le elezioni nella primavera del 2001) sul mercato televisivo fa saltare gli equilibri. Alla porta si presenta Marco Tronchetti Provera: nel luglio 2001, attraverso Olimpia, la Pirelli e la Edizioni Holding della famiglia Benetton, sostenuti da Intesa e Unicredit, rilevano il pacchetto di controllo di Telecom. Colaninno esce ma l'anno dopo torna sulla scena perché proprio da Telecom compra la Immsi con una cordata di cui fanno parte anche Interbanca e la Lm Real Estate, indirettamente controllata dall'amico Giorgio Magnoni (fratello di Ruggero, ex gran capo di Lehman Brothers in Italia, poi finito a Nomura). Con Immsi nel 2003 si porterà a casa la Piaggio.
Nello stesso anno viene ceduta la catena di controllo di Seat Pagine Gialle e poi si procede alla fusione di Telecom in Olivetti. Nel gennaio 2005 Telecom Italia lancia un'Opa sulla controllata Tim. Nel settembre 2006 ecco che si rivede lo zampino dello Stato: il consigliere di Palazzo Chigi, Angelo Rovati, fa pervenire a Tronchetti Provera un documento sul riassetto della società che ipotizza lo scorporo della rete telefonica per risolvere i problemi patrimoniali dell'azienda. Dopo giorni di dure polemiche con il premier Prodi, Tronchetti lascia la presidenza del gruppo di tlc e al suo posto subentra Guido Rossi. Alla fine spunta l'ennesima «operazione di sistema» con la benedizione del governo Prodi: il 28 aprile 2007 una cordata italo-spagnola composta da Mediobanca, Generali, Intesa, Sintonia dei Benetton e Telefonica di Cesar Alierta lancia un'offerta per rilevare la quota di Pirelli in Olimpia, con la contestuale creazione di una società veicolo, chiamata Telco.
Eccoci agli ultimi capitoli della storia e all'arrivo della cordata francese. Nel 2014 i soci italiani escono da Telco: rimane la sola Telefonica. Nell'ottobre 2015 il gruppo transalpino Vivendi, controllato da Vincent Bolloré, si muove sul mercato e progressivamente, all'inizio del 2016, arriva a detenere il 24,9%, diventando il primo azionista. Nel marzo del 2018 il fondo attivista Elliott entra con il 3% in Tim, chiedendo una discontinuità nella gestione dell'azienda. Il gruppo americano avvia anche un'azione legale contro Vivendi. All'assemblea del 4 maggio si presenta con l'8,85% del capitale e, con l'appoggio del governo attraverso Cdp (entrata con il 5% all'indomani delle elezioni) e dei fondi, conquista il cda. Il resto è cronaca.
In tutti questi anni la stabilità dell'azienda non è stata mai raggiunta - nè con gli italiani, nè con gli spagnoli e nè con i francesi - mentre i debiti sono aumentati. I primi snodi di questa camera di compensazione silenziosa dei conflitti tra economia e politica sono stati spiegati e documentati con chiarezza in un libro di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons, che già nel 2002 hanno raccontato la storia di una società che era stata messa su una china da cui sarebbe stato molto difficile risalire.
Eppure nel 1998, cioè all'indomani della privatizzazione, la società era la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto; aveva una elevata redditività e praticamente non aveva debiti netti. Poi è rimasta ostaggio di «capitani» e governi che spesso si sono scambiati gli equipaggi. Senza però mai dare a Telecom Italia una chiara rotta industriale.
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