di Alessandro Gnocchi
G li editori, di solito, sono persone di classe. Ma se c'è da vendere qualche copia in più, visto lo stato comatoso del mercato, accettano qualche compromesso. Ad esempio con le parolacce. Avete notato? Davanti alla cassa, negli ultimi mesi, è facile imbattersi in titoli come Ma fa 'n po' come cazzo ti pare e Il culo non esiste solo per andare di corpo. Il secondo volume, per inciso, è una raffinata (giuro) antologia di poesia greca e latina. Titoli simili, fino a qualche tempo fa, non sarebbero stati esposti nel punto di massima visibilità, quello riservato agli acquisti di impulso. Oggi invece non suscitano alcuno scandalo.
Trattasi di fenomeno nuovo? Vito Tartamella, già autore di Parolacce, documentato saggio sul turpiloquio di cui è uscita una nuova edizione in eBook, ha appena pubblicato sul suo sito internet (parolacce.org) un'approfondita analisi statistica sui titoli volgari.
Ecco i risultati, in estrema sintesi. Innanzi tutto, non siamo di fronte a una assoluta primizia, nel 1531, ad esempio, uscì La cazzaria di Antonio Vignali. Il Novecento segna però la svolta "sboccata". Come mostra Tartamella, negli anni '70 e '80 la tendenza, rispetto al passato, «si è quadruplicata, per poi esplodere negli anni '90 e 2000. Rispetto agli anni '60, i libri con un titolo volgare sono aumentati di 13 volte negli anni '90 e di 29 volte negli anni 2000. Se la tendenza resterà costante, entro la fine di questo decennio saranno aumentati di 36 volte». Non preoccupiamoci troppo, però. Nel decennio record 2000-2009, per il quale abbiamo dati definitivi dell'Aie (Associazione italiana editori) e dell'Istat, sono stati pubblicati in Italia 56mila libri all'anno, per un totale di 560mila dal 2000 al 2009. Nota l'autore della ricerca: «I 231 volumi con un titolo volgare usciti in quel decennio rappresentano un misero 0,04% del totale. Vuol dire 4 ogni 10mila libri, una ventina l'anno: una piccola minoranza, anche se fa rumore».
Perché questa diffusione crescente? Il linguaggio dagli anni Settanta in poi è cambiato. I bambini delle elementari, oggi, utilizzano vocaboli sporchi che un tempo sarebbero costati loro un ceffone sulla bocca senza suscitare le lamentele degli psicologi. Poi ci sono altri aspetti, indicati da Tartamella: il peso crescente della satira, ad esempio; e la maggiore vicinanza tra cultura accademica e cultura pop. Giusta o sbagliata che sia, la parola d'ordine è «informalità». Vale anche nei costumi editoriali, nel tentativo forse illusorio di avvicinarsi alla «gente comune».
La vera rottura, come rivelano i numeri di Tartamella, «è maturata negli anni '90, quando è iniziata un'esplosione di titoli che dura ancora. Se volessimo identificare un punto di inizio in un libro di successo, forse potremmo trovarlo nel 1997 con Che stronzo! Il libro-verità sul fidanzato italiano di Silvio Lenares». Nel 2002 Luciana Littizzetto piazza il bestseller: Ti amo bastardo. Da lì in avanti è il diluvio. Si passa dalla satira di Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita di Giulio Cesare Giacobbe (2003) alla saggistica più o meno seria come Stronzate: un saggio filosofico (2005) di Harry Frankfurt.
Ma quali sono le parolacce più usate nei titoli dei libri italiani? Scrive Tartamella: «In classifica svetta bastardo (257 titoli), seguito da puttana (109) e culo (60). In questo decennio si assiste a un'impennata di stronzo, che ha già superato culo e tallona puttana»..
In teoria, la parolaccia nel titolo dovrebbe attirare l'attenzione e dunque facilitare le vendite.
In realtà, la strategia della volgarità paga fino a un certo punto: sui 594 libri con titoli triviali presi in esame per questa statistica, dice Tartamella, «i best seller non mi sono sembrati più di una ventina. Insomma, alla fine vince pur sempre il contenuto (com'è giusto che sia)». Se un libro è una bufala, non c'è titolo che tenga. I lettori non sono così c...
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