Luigi Guelpa
I test nucleari di Kim Jong-un non rappresentano solo un atto di forza, ma stanno seminando morte, distruzione e persino la fuga di materiale radioattivo verso Cina, Giappone, Mongolia e sud-est della Russia. Non è un semplice timore, ma quanto si sta verificando da qualche settimana a questa parte, alla luce di un incidente che ha provocato 200 morti e del quale si è avuto notizia soltanto ieri. Le vittime hanno fatto la fine del topo, schiacciate da tonnellate di macerie crollate nella galleria dentro la quale stavano lavorando. Hanno perso la vita in questo modo atroce nel tunnel del sito nucleare di Punggye-ri, in Corea del Nord, crollato lo scorso 10 ottobre. Un centinaio sono rimaste intrappolate in un primo momento, mentre le altre in un secondo crollo nello spazio delle attività di soccorso.
La notizia è stata diramata ieri dall'agenzia sudcoreana Yonhap, secondo cui l'incidente sarebbe avvenuto durante i lavori di scavo di un'altra galleria e avrebbe anche provocato la dispersione di un non meglio specificato quantitativo di materiale radioattivo. La drammatica vicenda è stata ovviamente tenuta nascosta dal regime di Pyongyang, anche perché il crollo è senz'altro da mettere in relazione con gli esperimenti nucleari calendarizzati negli ultimi mesi da Kim Jong-un. Secondo un report trasmesso sempre nella giornata di ieri dalla tv giapponese «Asahi» l'incidente sarebbe infatti l'effetto della sesta detonazione del 3 settembre, la più forte tra i test nucleari di Pyongyang, che avrebbe indebolito il sottosuolo e l'area sovrastante del monte Mantap. L'esperimento con la bomba a idrogeno, lo ricordiamo, innescò un'esplosione di circa 150 chilotoni che provocò un forte sisma di magnitudo 6.3, accompagnato da un altro di magnitudo 4.6. L'ipocentro venne misurato a «zero chilometri», a conferma della natura artificiale dell'onda sismica. Da quel momento si sono verificate almeno un'ottantina di scosse che hanno fatto collassare il tunnel rendendo al medesimo tempo fragile la montagna, provata e resa instabile dalle sei detonazioni. Nam Jae-cheol, capo della Korea Meteorological Administration, l'agenzia che si occupa dei terremoti, ha riferito ieri in un'audizione parlamentare a Seul che «un'altra esplosione nucleare potrebbe far crollare la montagna con un rilascio abbondante di materiale radioattivo». Vale la pena ricordare che tre giorni dopo il test della bomba a idrogeno i satelliti dell'azienda californiana Planet riuscirono a fotografare il sito, comparando le immagini con quelle scattate prima della detonazione. Gli analisti dissero che dai fotogrammi «non solo si percepiscono nitidamente macchie e disturbi elettromagnetici, ma appare anche un'allarmante trasformazione morfologica dell'area. I rischi di crolli sono elevati». Preoccupazione anche nelle parole di Wang Naiyan, ricercatore del programma nucleare di Pechino, già a capo dell'agenzia nucleare cinese. Secondo lo scienziato «il rischio di disastro ambientale è stato superato in abbondanza. Il crollo della montagna quasi di sicuro ha lasciato aperto un foro dal quale potrebbero fuoriuscire radiazioni». Inoltre il monte Mantap, o quel che ne resta, si trova in linea d'aria a 400 km da Vladivostok, la più importante città russa sul Pacifico, terminale della Transiberiana e anche strategico porto commerciale e militare. Surreale il commento di Pyongyang sulla vicenda.
«Non c'è nulla di vero - sostiene il ministro per l'Energia Atomica Ri Je-son dalle colonne del quotidiano Choson Sinbo - è la solita propaganda di Seul, Tokyo e dell'americano Trump per tentare di mettere in cattiva luce la nostra conclamata supremazia e nascondere la loro crisi imbarazzante».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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