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Quando uccisero la Prima Repubblica (senza manette)

Quando uccisero la Prima Repubblica (senza manette)

Massì, dai, sarà il solito brano da idioti che dura tre mesi e poi ciao. Quando è uscito Hanno ucciso l'Uomo Ragno, le aspettative della critica erano pari a zero. In compenso quelle del pubblico erano sottozero perché nessuno li conosceva, questi 883, mentre le folate del grunge alla Nirvana stavano demolendo gli anni Ottanta e i paninari sembravano già reperti storici. Poi, ovvio, il brano è diventato un tormentone e oggi lo conoscono a memoria anche quelli che allora per carità, ma che cos'è sta robina qua. Gli 883 erano due ragazzi pavesi che in realtà amavano il rock e il rap e immaginavano di finire dietro una scrivania dal lunedì al venerdì. Già, così si immaginavano Max Pezzali e Mauro Repetto. E invece, guarda il gioco delle coincidenze, Hanno ucciso l'Uomo Ragno è diventata l'involontaria colonna sonora di una delle nostre fasi più turbolente del Dopoguerra, incastrandosi quasi alla perfezione nel marasma istituzionale e sociale dei primi anni Novanta. «Solita notte da lupi nel Bronx, nel locale stanno suonando un blues degli Stones». E vai con un suono di sirene.

Hanno ucciso l'Uomo Ragno è stato pubblicato il 10 febbraio 1992, un giorno qualunque di un mese qualunque in concomitanza del Festival di Sanremo. Però - e qui la malizia del caso è perfida - sette giorni dopo, ossia il 17 febbraio, la polizia arresta Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio a Milano, la casa di riposo dei cosiddetti «meno abbienti». In tasca aveva una bustarella da sette milioni di lire e la maledizione di diventare il primo politico a battezzare Tangentopoli.

Mario Chiesa non è altro che «un mariuolo» per Bettino Craxi ma diventa subito il bersaglio di quelli che, se ci fossero stati i social, sarebbero stati chiamati «haters». È il tappo che salta dalla magnum della corruzione. Antonio Di Pietro diventa il Robespierre della rivoluzione di Mani Pulite, mentre Francesco Saverio Borrelli gestiva il «club dei Giacobini» che per qualcuno stava realizzando un colpo di Stato destinato a stravolgere completamente i vertici istituzionali e il tessuto politico italiano. «Il guercio entra di corsa con una novità, dritta sicura si mormora che i cannoni hanno fatto bang». Per carità, il tormentone degli 883 non c'entra nulla con Tangentopoli, è stato scritto prima di qualsiasi manetta, così come non c'entra nulla con i lutti disastrosi e indimenticabili di quell'anno, gli assassinii di Falcone e Borsellino e delle loro scorte, tra maggio e luglio.

«Il brano è stato scritto molto tempo prima delle stragi di mafia» ha confermato Max Pezzali sganciandosi per l'ennesima volta da qualsiasi coinvolgimento «impegnato». Non a caso, anche per questo gli 883 sono diventati in tempo quasi reale il bersaglio preferito dei puristi del pop, dei soliti tromboni per i quali una canzone non ha senso a meno che non sia impegnata. La leggerezza, si sa, subisce sempre giudizi pesanti.

Però i brani che resistono per decenni sono spesso quelli che, anche involontariamente, intercettano lo zeitgeist, lo spirito del tempo, la sensazione spesso ancora impercettibile di essere alla vigilia di un cambiamento. «L'Uomo Ragno rappresentava la purezza adolescenziale ammazzata dal mondo degli adulti» ha spiegato Pezzali, uno che, molto prima di Twitter, ha avuto il dono della sintesi. «Hanno ucciso l'Uomo Ragno chi sia stato non si sa, forse quelli della mala, forse la pubblicità». Nel 1992 senza dubbio è stata ammazzata anche la Prima Repubblica, o magari è morta di morte naturale, e mentre il brano iniziava lentamente a farsi luce in classifica, le manette iniziavano a tintinnare.

Tanto per capirci, Max Pezzali ha raccontato che Hanno ucciso l'Uomo Ragno è nato quasi per caso dopo «un panino piccante pancetta e tabasco». «Il testo non veniva e allora uscimmo a caccia di ispirazione. Poi la sera, di rientro a casa, mia madre, aveva preparato il minestrone che, unito al tabasco e alla pancetta non vi dico la sensazione. All'improvviso mi è venuta una frase Hanno ucciso l'Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. A quel punto sono corso in cameretta e la canzone è nata da sola». Spontaneità e provincia. Buoni sentimenti ed epica da fumetto. In fondo qui ci sono alcuni degli ingredienti di uno dei più grandi successi commerciali degli ultimi decenni, senza dubbio il più bombardato dalla critica perché non impegnato, non schierato a sinistra, non referenziale ma nemmeno autoreferenziale.

Semplicemente Max Pezzali raccontava la vita al di là della metropoli, nei piccoli centri dove c'erano ancora le «compagnie» di amici, dove il «deca» era l'unità di misura del sabato sera, dove «non me la menare» era il claim preferito del (post) adolescente ancora in cerca d'autore. Gli 883 hanno intercettato questo pubblico, con un successo straordinario. Il disco ha venduto seicentomila copie e il brano è andato al numero uno in classifica per settimane. Mentre i telegiornali raccontavano lo sfacelo di uno Stato e la terrificante prova di forza della mafia, c'erano due ragazzi pavesi che smontavano i luoghi comuni dei scintillanti anni Ottanta.

Gli 883 erano gli anti yuppies ma non erano neanche grunge. Non sognavano Wall Street ma neppure vestivano camicie a quadretti e si facevano crescere i basettoni. Erano figli della provincia nei quali non vedevano l'ora di riconoscersi anche i figli della metropoli. In ogni caso questo tormentone, che partecipò al Festivalbar e vinse Vota la voce, è diventato uno dei simboli di un'epoca e basta vedere il videoclip per capirlo (tratto dal film Jolly Blu).

C'è Max Pezzali giovane e spaurito che viene presentato dal suo manager (Saturnino) al capo della casa discografica (Jovanotti). Dopo scene di ordinaria managerialità (telefonate, caos, pose da megadirettore), Pezzali riceve il via libera per pubblicare il disco e Saturnino gli conferma di essere «un ragazzo fortunato» (come il brano che Jovanotti aveva appena pubblicato). Un'ingenua sequenza da musicarello.

Però il testo era inconsapevolmente perfetto: «Il crimine non vincerà ma nelle strade c'è il panico ormai, nessuno esce di casa, nessuno vuole guai e agli appelli alla calma in tv adesso chi ci crede più». È un tormentone pop, potrebbe sembrare la cronaca di un'epoca.

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