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"Io sono stufo". La "gola profonda" che svela la fine dei 5S

La situazione all'interno del Movimento 5 Stelle è grave. Senza uomini, senza soldi e senza una strategia, la creatura di Grillo e Casaleggio è immobile. In coma...

"Io sono stufo". La "gola profonda" che svela la fine dei 5S

“Il Movimento 5 Stelle aveva già perso per strada le stelle, ora anche il movimento. Nel senso che non si muove proprio più, a parte i due cavalieri l’un contro l’altro armati, Conte e Di Maio, e la schiera parlamentare che pare sospesa nel vuoto”. Il tono di voce della nostra fonte interna ai grillini nella Capitale (“se mi qualifica anche in modo generico, le taglio una mano”) è quella di un reduce che ne ha viste di tutti i colori, ed è stufo. “Sì. Non stanco: stufo. In molti siamo rassegnati a questo andazzo da tragicommedia. Facesse ridere, almeno…”.

La situazione del Movimento, infatti, è grave. E questa volta anche seria. “Oggi gli occhi sono puntati su Vito Petrocelli, il presidente della commissione Esteri del Senato a rischio per espulsione per essere disallineato rispetto alla linea atlantista e filo-ucraina. Ma sa quanti parlamentari abbiamo perduto in questi anni? Un terzo, sia fra i deputati che fra i senatori. Buttati fuori, giustamente, per non essere in regola con i rimborsi elettorali, oppure per defezione, trasmigrando in ogni parte dell’emiciclo. E questo significa ben di più di un semplice ‘tradimento’, come dicono i vertici”. In effetti, uno smottamento di tal portata sembrerebbe avere un significato più squisitamente politico. “Esatto. È venuto al pettine un primo nodo che ci portiamo sul groppone da sempre: non aver mai affrontato la questione dell’identità, se vogliamo chiamarla così per capirci meglio, ideologica. Grillo e Casaleggio, a cui dobbiamo solo gratitudine in eterno, ci hanno fatto credere che superare le ideologie di destra e sinistra significasse non averne una, e abbiamo proceduto a tentoni, immettendo e accumulando temi di protesta in scaletta pur di rappresentare ogni tipo di scontento. E ci stava. Ma senza una coerenza di fondo, poi ti ritrovi le vecchie sensibilità incrostate tornare a galla. Ed ecco che c’è chi è andato in Fratelli d’Italia, chi fra i Comunisti di Rizzo, chi nella Lega. Un carnevale”.

Questo però è il passato. Qual è lo scarto, ora? “Il secondo nodo: l’assenza di una struttura”. Il M5S ha sempre rifiutato qualsiasi modello organizzativo che ricordasse alla lontana l’aborrita forma-partito. Beppe Grillo era il ‘capo politico’, carica poi passata a Luigi Di Maio e oggi, sia pur tra beghe giudiziarie e con un recente referendum online su SkyVote che ha raccolto solo un terzo degli iscritti, a Giuseppe Conte. Originariamente, lo statuto si chiamava Non-Statuto e i meetup locali costituivano la ragnatela sul territorio, spontaneistica e caotica. Nel 2016 nacque il primo ‘direttorio’ a cinque (Di Maio, Di Battista, Fico, Ruocco e Sibilia). Nel 2019 si escogitò la formula dei ‘facilitatori’, sorta di proconsoli regionali che però conclusero poco o niente. “Appunto, dal 2009 quando nacque ufficialmente, il Movimento non ha saputo darsi un’organizzazione territoriale. Un clamoroso ‘buco’ che ha generato due conseguenze mortali”. Da un lato, “lo sfarinamento progressivo dei gruppi nei Comuni: a parte qualche realtà, i gruppi di attivisti sono evaporati. Sciolti come neve al sole. Voglio dire che non esistono più, spesso neanche dove bene o male abbiamo conservato nostri consiglieri comunali o regionali”. Dall’altro, e arriviamo al punto vero, “non è mai stato messo in piedi un meccanismo di formazione e selezione dei candidati e degli eletti. Gianroberto probabilmente ci pensava, e infatti la Casaleggio Associati, con la piattaforma Rousseau, qualcosa poi ha fatto. Ma non basta qualche ciclo di seminari o di corsi, serviva un’educazione costante, una scuola permanente. Abbiamo catapultato nelle istituzioni gente appassionata ma che non sapeva l’abc della politica. E il bello è che si intende continuare così”.

Anzi peggio, verrebbe da dire. Benchè erosi dagli abbandoni, fino a un anno fa i pentastellati si erano sempre considerati e avevano agito da monolite, con il ‘garante’ Grillo ad avere l’ultima parola, dettando legge e cacciando dissidenti. Adesso, ridotto drasticamente il consenso nel Paese (il 33% del 2018 sembra di un secolo fa), arrancano dilaniati dalla faida interna fra l’ex premier e l’attuale ministro degli Esteri. Con il primo che, fra una supercazzola e l’altra, cerca alla meglio di tenere cuciti i pezzi, benedicendo il sì alle armi a Kiev ma ostentando contrarietà all’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil, classico cerchiobottismo per dare un contentino ai grillini del Senato, più critici e rumoreggianti, e alla base, da sempre di sentimenti più radicali. E il secondo, il Di Maio andreottiano se non forlaniano, che lascia logorare la già fragile leadership dell’avvocato di Volturata Appula, il quale ogni giorno che passa vede sbriciolarsi la popolarità personale guadagnata durante i due governi, politicamente opposti, guidati nel triennio scarso 2018-2021.

“Il fatto che l’11 marzo scorso Conte sia stato votato solo da 38 mila su 125 mila iscritti è la controprova di come siamo messi”. E qui si pone un interrogativo molto pratico: come si farà a comporre le liste elettorali l’anno prossimo, alle politiche, se la mitica ‘base’ è ridotta al lumicino? “Con l’unico sistema fattibile, che tutti hanno già capito”. Silenzio. Tentativo di risposta: abolendo il divieto di terzo mandato, regola finora sacra che in realtà è in bilico da un pezzo? Altro silenzio. Chi tace – dice il detto – acconsente. In effetti, si tratterebbe di sbloccare la carriera ad infinitum di tutta la prima linea: dal ministro dei rapporti con il parlamento, Federico D’Incà, al presidente della Camera, Roberto Fico, alla viceministro Laura Castelli, agli ex ministri Bonafede, Toninelli, Fraccaro, fino naturalmente a lui, Di Maio. Quel che era un’aspirazione personalistica dei maggiorenti 5 Stelle diventerebbe una necessità materiale: con la riduzione del numero di parlamentari e il calo di voti già messo in conto, solo riproponendo la vecchia guardia l’ex apri-scatole grillino non rischia la figuraccia finale, ossia non avere neppure abbastanza persone con un minimo di seguito da candidare alle elezioni.

Inabissatosi il carisma di Grillo e con le tensioni sociali da spaventoso caro-vita alle porte, le preferenze a suo tempo rastrellate grazie al reddito di cittadinanza, specie al Sud, non basteranno a evitare un penoso ridimensionamento. “Senza contare”, aggiunge mesta la nostra fonte, “che dopo aver perso elettori a destra, ora li perderemo a sinistra, visto che non si notano differenze fra noi e il Pd, e nell’area più a sinistra qualche movimento c’è, come la neonata iniziativa di Elly Schlein (vicepresidente dell’Emila Romagna che dato vita a ‘Visione Comune’, ndr) che non sottovaluterei”. E Alessandro Di Battista, il Dibba intonso e attivissimo sui media? “Alessandro secondo me non ha ancora uno staff, una rete sua in giro per l’Italia. Altrimenti, almeno sul piano politico in senso stretto, non si capisce che cosa aspetti. Il problema è che internet, e noi lo sappiamo bene, non basta: servono i soldi e teste pensanti, oltre che le idee, per fare politica. E infatti noi non li abbiamo, nemmeno per le vicine amministrative”. Senza uomini, senza soldi e senza una strategia, il Movimento è immobile. In coma. L’eventuale certificato di morte potrà giungere fra un anno, alle politiche.

Sic transit Grillo mundi.

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