«Ah, dunque è così che andò....». Sono passati quasi trent'anni dalla mattina in cui lo vennero ad arrestare su ordine del pool Mani Pulite, e a Davide Giacalone tocca oggi scoprire che dietro il suo mandato di cattura c'era una manovra di gravità sconcertante messa in atto negli uffici giudiziari milanesi, e rivelata solo ora da un testimone dell'epoca.
È sull'inchiesta che travolse Giacalone, allora giovane e brillante braccio destro del ministro repubblicano Oscar Mammì, che si consuma l'episodio raccontato nei giorni scorsi dal giudice milanese Guido Salvini con un articolo sul Dubbio: il fascicolo con le richieste di arresto che arriva sul tavolo di Salvini, ma che gli viene sottratto dal capo dell'ufficio del giudice preliminare Mario Blandini. E assegnato a Italo Ghitti, il gip che monopolizzava tutte le richieste di cattura del pool e le accoglieva tutte istantaneamente. Il trucco: un unico fascicolo con un numero unico, divenuto - scrive Salvini - «un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse». Titolare, Italo Ghitti, «che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Ghitti quando seppe che l'inchiesta contro Giacalone era finita a Salvini fece fuoco e fiamme per farsela ridare. Appena la ottenne ordinò la cattura del 34enne politico.
Che effetto le fa scoprire che per arrestarla dovettero persino portare via il fascicolo a un giudice?
«Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari, studiando anche le ore e i minuti migliori per inviare le richieste di cattura, era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall'articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».
Perché era così importante che a gestire tutto fosse Ghitti? Secondo Salvini, col sistema del fascicolo unico il pool milanese poteva indagare anche su vicende lontane dalla sua competenza territoriale.
«Come nel mio caso: alla fine venne stabilito che la competenza era di Roma e non di Milano. Ma arrivarci non fu una passeggiata. A Milano dopo dieci giorni di carcere mi diedero i domiciliari, ma a quel punto intervenne la Procura di Roma che mi rispedì in prigione. In cella mi arrivavano a giorni alterni gli ordini di custodia dalle due città, sembrava una gara tra Procure a chi me ne mandava di più per rimarcare la propria competenza. Anche gli agenti di custodia erano impietositi».
Salvini dice che il collega Ghitti era «direzionato» a favore della Procura, per questo bisognava impedire che qualunque altro gip «interferisse» con le indagini su Tangentopoli.
«La storia di Mani Pulite la conosciamo tutti. Per quanto riguarda il mio caso personale, posso solo ricordare che le accuse per cui il dottor Ghitti ordinò il mio arresto ritenendole gravi precise e concordanti si rivelarono talmente infondate che alla fine venni assolto in udienza preliminare senza neanche venire rinviato a giudizio».
Beh, è finita bene.
«In Italia la giustizia di merito, quella che arriva all'esito dei processi, funziona abbastanza bene, al netto degli inevitabili errori giudiziari. Il dramma è quanto accade prima, durante le indagini, quando a garantire i diritti del cittadino sotto inchiesta dovrebbe essere il giudice delle indagini preliminari, una figura da barzelletta, costretto a decidere solo sulla base delle carte che gli vengono sottoposte dai pm, e che dovrebbe prendersi la briga di dire ai pm vi siete sbagliati. Quando mai? Al massimo assistiamo a qualche teatrino, invece del carcere lo mando ai domiciliari. Poi arriva la sentenza che dice che l'imputato è innocente. Ma che te ne fai dopo dieci anni?»
Con lei quanti anni sono serviti?
«Dodici».
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