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"Io vittima di un'ingiustizia vi racconto il mio calvario"

Il senatore: "Chi mi ha condannato è stato prima avversario politico. Bevo la cicuta e mi dimetto"

"Io vittima di un'ingiustizia vi racconto il mio calvario"

Alla fine di questo calvario, una premessa mi è d'obbligo. Io sono convinto che la battaglia che ho intrapreso vada al di là della mia persona. Sono persuaso che certe incongruenze, contraddizioni, meccanismi infernali, che spesso emergono nel nostro sistema giudiziario, rappresentino l'occasione per fare il punto sulla condizione della giustizia e della democrazia nel nostro paese. Proprio per questo dico fin d'ora che, qualunque sia l'esito del voto, un attimo dopo rassegnerò le dimissioni da senatore. Dopo, però, non prima: perché voglio, appunto, che il Senato si esprima su un caso che io considero, con tutto il rispetto che posso avere per la magistratura, una grande ingiustizia. Non per nulla, io continuerò a combattere la mia battaglia su questa vicenda in tutte le sedi. In Italia e in Europa.

LA STORIA

Io penso di essere vittima di una vicenda kafkiana. Arrivo in Rai nel giugno del 2009, dopo aver lavorato 30 anni in aziende private: l'agenzia Asca; Panorama; La Stampa. Accettai uno stipendio inferiore a quello del mio predecessore, Gianni Riotta, ma posi come condizione quella di poter continuare la mia collaborazione con Panorama: volevo dire la mia, al di fuori del Tg che avrei diretto. Prima mi fu detto di sì, poi il presidente della Rai di allora, Paolo Galimberti, si oppose. Mi mandò una e-mail in cui mi diceva che «era eticamente (oltre che contrattualmente) incompatibile che io continuassi». A quel punto io posi la questione della carta di credito. Dissi all'allora direttore generale Masi che volevo una carta di credito, esattamente come quella di cui disponevo a La Stampa, da inviato speciale. Ripeto da inviato speciale non da direttore: stesso budget; stesse regole, tra le quali quella di non dover indicare i nominativi delle persone incontrate o invitate (per ovvie ragioni di riservatezza delle mie fonti). La trattativa si chiuse. Per 18 mesi andò avanti tutto come previsto. A giugno del 2010 Masi inviò una circolare nella quale era previsto che le spese prive dei beneficiari dovessero essere sottoposte all'approvazione del direttore generale: avendo io l'accordo di cui vi ho parlato, pensavo di esserne dispensato. Continuò a non esserci nessuna contestazione sulle mie note spese. Nessuno mi disse niente di questo problema fino a quando uno dei consiglieri di amministrazione, Rizzo Nervo, non pose la questione al direttore generale Masi. Il quale non avendo le idee chiare in testa - in Rai capita spesso - farfugliò e si contraddisse. In due lettere diede due risposte diverse: nella prima, indirizzata a Nervo, definì la carta un «benefit compensativo» in cambio dell'«esclusiva»; nella seconda, al sottoscritto, cambiò la natura della carta in una sorta di «facility», sostenendo che tra me e l'azienda fosse insorta un'incomprensione di natura amministrativa e, riconoscendo la mia buona fede, mi chiese di reintegrare le somme. Sia pure indignato, decisi di ridare indietro all'azienda tutta la somma in questione e comunicai che mi sarei rivolto al giudice del lavoro. Restituii le somme ancor prima che ricevessi l'avviso di garanzia per peculato, per una questione di orgoglio: essere accusato di aver sperperato soldi pubblici la reputavo, e la reputo, un'offesa. Peccando d'ingenuità, ero convinto che la vicenda si fosse chiusa lì.

IL PROCESSO E L'ASSOLUZIONE

Nel frattempo un esposto presentato dall'onorevole Antonio Di Pietro aveva messo in moto la procura di Roma. Dalle indagini non emerse una prova, un episodio, una testimonianza, da cui si potesse dedurre che fossi andato a cena per fatti miei privati. Anzi, il 26 aprile del 2011 il consiglio dell'Ordine dei giornalisti archiviò la vicenda all'unanimità. Stessa cosa fece la Corte dei Conti, il 6 dicembre 2011, ma due mesi prima il Gup di Roma mi aveva rinviato a giudizio. Il processo di primo grado durò poco più di un anno. Il pm cominciò la sua requisitoria, avvertendo che non c'era una prova diretta di quell'illecito. Non c'era la cosiddetta «pistola fumante». Il processo si concluse con l'assoluzione. Pensai che il mio calvario fosse finito, invece, stava appena cominciando.

L'APPELLO E LA CONDANNA

Il 27 ottobre del 2014, ci fu l'appello. Senza riaprire l'istruttoria, assumere nuove prove, raccogliere nuove testimonianze o riascoltarmi, la sentenza di assoluzione viene ribaltata. Di più, il tribunale va oltre le richieste dei pm: mi condanna a due anni e sei mesi e all'interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo della pena. Insomma, è una sentenza che mi consegna all'oblio. Resto esterrefatto. Non mi riconosce neppure l'attenuante della restituzione dei soldi che io ridiedi alla Rai addirittura prima di ricevere l'avviso di garanzia. La mia colpa sarebbe stata quella di non aver calcolato i danni. Ma come avrei potuto farlo? L'azienda all'epoca non me li chiese. Senza contare che, successivamente fui assolto in primo grado e il giudice del lavoro costrinse la Rai a ridarmi i soldi. E, paradosso nel paradosso, dopo che con la condanna definitiva ho di nuovo ridato i soldi all'azienda, quest'ultima non mi ha chiesto i danni.

I DUBBI SULLA SENTENZA

Resto sconvolto. Non mi do pace. Comincio ad analizzare quanto è avvenuto con lo stato d'animo di chi si sente tradito dalla giustizia. Scopro che nel tribunale di Appello, quello che ha capovolto l' assoluzione di primo grado, c'era un giudice che è stato in politica per venti anni. Il giudice in questione, Giannicola Sinisi, ha, infatti, avuto una lunga carriera in politica nello schieramento avverso rispetto al mio. Questo è il giudice che mi ha condannato, capovolgendo una sentenza di assoluzione e, ancora, che ha aumentato di 6 mesi la pena richiesta facendomi in questo modo incorrere nella legge Severino.

Cosa direste se Michele Emiliano, politico, magistrato da 12 anni in aspettativa, e, ora, candidato alla segreteria del Pd, ritornasse in futuro al suo vecchio

mestiere per giudicare in tribunale Renzi? Mi viene quasi da ridere.

GLI «AVVERSARI» E LE COINCIDENZE

Non basta. Il relatore del mio processo in Cassazione è stato Stefano Mogini, già capo di gabinetto del ministro di grazia e giustizia del governo Prodi. Ebbene, Mogini è stato consigliere giuridico della delegazione diplomatica che lo Stato italiano ha oltreoceano presso l'Onu. Lui e Sinisi erano i due magistrati che avevamo in America. Hanno lavorato gomito a gomito per cinque anni. Poi, tornati in Italia, nel giro di un anno, sono stati chiamati entrambi a giudicare il sottoscritto, in due diversi gradi di giudizio: beh, francamente, tutto questo fa una certa impressione sul piano delle coincidenze.

DIMISSIONI

C'è un vuoto politico grande come un oceano, quello di assicurare a un imputato un giudice terzo, imparziale, che non sia stato un avversario politico. La necessità che il Parlamento valuti nel merito la vicenda giudiziaria di un suo membro per evitare la minima ombra di una persecuzione. La politica è, innanzitutto, assunzione di responsabilità. E io me la sono assunta in toto fino all'ultima tappa di questo calvario. Sono pronto a bere la cicuta. Poi, qualunque sia l'esito mi dimetterò da senatore. Sicuro di avere la coscienza a posto. C'è una frase che mesi fa mi ha detto Di Pietro, il cui esposto è all'origine di questa assurda vicenda. «Magari i guai che hai avuto, li hai avuti per quest'esperienza in politica La politica porta guai». Un'amara verità.

Non per me, quanto per questo Paese.

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