Sono i pasdaran della tolleranza, i burocrati del buonismo ad ogni costo. Si nascondono dietro le sigle del Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu, di Amnesty International e di Human Rights Watch. In Libia attribuiscono all'Italia condotte disumane con i migranti, ma chiudono gli occhi sul traffico di uomini gestito dalle organizzazioni criminali. In Irak hanno già dimenticato gli orrori dell'Isis e difendono a spada tratta i suoi militanti accusando i tribunali governativi di spedirli alla forca con sentenze frettolose e imparziali. Il più attivo nel denunciare i tribunali di Bagdad e nello scordare le nefandezze dei circa 20mila prigionieri dello Stato Islamico è il Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu guidato da quel principe giordano Zeid Raad Zeid al-Hussein già distintosi per le accuse di disumanità al nostro Paese. Dopo l'esecuzione di massa del 25 settembre con 42 militanti dell'Isis sulla forca e quella del 14 dicembre con altre 38 impiccagioni il principe Alto Commissario e suoi portavoce pretendono l'immediata sospensione delle esecuzioni.
«Siamo di fronte alla prospettiva di errori giudiziari irreversibili. L'imposizione della condanna a morte al termine di un processo in cui non sono state rispettate le corrette procedure è una violazione del diritto alla vita» denuncia la portavoce Liz Throssell. E Amnesty International e Human Rights Watch, come già successo per l'Italia in Libia, partecipano al coro. Per Amnesty la pena di morte «non andrebbe usata in nessuna circostanza e soprattutto in Irak dove il governo ha la vergognosa reputazione di mandare a morte gli imputati dopo processi scorretti e dopo averli torturati per farli confessare». Per Human Rights Watch «nei processi, la cui durata a volte non supera l'ora, non si distingue tra chi ha partecipato alle mattanze e chi ha semplicemente militato tra le fila dell'Isis». Accuse rispedite al mittente dai giudici iracheni che ricordano come a novembre i loro tribunali abbiano emesso 449 condanne a fronte di ben 1.490 assoluzioni.
Ma a far strillare ancor di più i talebani del buonismo s'aggiunge la pretesa del premier iracheno Haider al-Abadi di giudicare e mandare a morte tutti i combattenti con passaporto straniero. Il primo a farne le spese è stato un jihadista con passaporto svedese finito sulla forca il 14 dicembre nonostante le rimostranze di Stoccolma. Stando a questi garantisti a oltranza i tribunali di Bagdad non avrebbero giurisdizione per condannare le centinaia di prigionieri stranieri, tra cui parecchi americani e decine di francesi, inglesi, tedeschi e belgi. Tutti i volontari del terrore, stando alle tesi dell'Onu, andrebbero consegnati alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja dando così il via a un'odissea giudiziaria simile a quella protrattasi per oltre 22 anni davanti al Tribunale per l'Ex Jugoslavia.
Un'odissea che le autorità irachene non hanno nessuna intenzione di veder ripetere. «Sono venuti qui a uccidere i cittadini di questo Paese e verranno giudicati secondo le leggi di questo Paese» ripete il procuratore capo di Mosul Salem Mohammed. Un punto di vista che rispecchia, sotto sotto, quello di molti governi occidentali. La Germania, a oggi, si è fatta avanti solo per discutere la sorte di una volontaria 16enne partita per Mosul dopo essersi innamorata online di comandante dell'Isis e attualmente detenuta in un centro per minori. «Sfortunatamente in quasi tutti i casi l'unico modo di affrontare il problema è quello di ucciderli» ha ammesso lo scorso ottobre il ministro britannico Rory Stewart.
Un'opinione a cui s'è immediatamente allineato il ministro della difesa francese signora Florence Party pienamente convinta che la sola soluzione per risolvere il problema dei jihadisti sia quella di «lasciarli morire in combattimento».
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