Jobs Act, la fronda interna sceglie Renzi e molla la Cgil

Mai così lontani i democratici e il sindacato rosso, sotto accusa per il clima di tensione. Anche Damiano prende le distanze da Camusso e Landini: "Si occupino dei contratti"

Jobs Act, la fronda interna sceglie Renzi e molla la Cgil

È partito per il G20 d'Australia piuttosto soddisfatto, Matteo Renzi: nel giro di una settimana o poco più ha rimesso in moto la riforma elettorale («Vorrebbero che dessi una botta in testa a Berlusconi ma non vedo la ragione: l'accordo c'è») e «chiuso la partita» del Jobs Act.

Il dissenso degli alfaniani è già rientrato, la minoranza Pd è venuta a patti col governo, consentendo a Renzi di far passare la riforma del lavoro prima della legge di Stabilità in cambio di una modifica che resta alquanto vaga (tanto che Lorenzo Guerini, vicesegretario Pd, spiega che sarà il governo a precisare nei decreti delegati le fattispecie per cui resta l'articolo 18) e il fronte dello scontro è ormai spostato tutto fuori dal Parlamento. Camusso e Landini, costretti a tenere alta la tensione per evitare il depotenziamento del loro sciopero generale, dicono che si tratta solo di «una presa per il culo», secondo la formula del leader Fiom.

Sta di fatto che, quando la Cgil farà la sua mobilitazione il 5 dicembre, il Jobs Act sarà già passato alla Camera, e la sinistra Pd lo avrà in larga parte votato e difficilmente potrà scendere in piazza con Camusso a contestarlo. Del resto, il sindacato della sinistra e il suo ex partito di riferimento non sono mai stati tanto lontani e contrapposti, mai un leader della Cgil aveva attaccato un premier di sinistra con simile virulenza, mai si erano sentite dal Pd parole così dure verso i capi del sindacato. «Temo che il segretario della Cgil abbia deciso di generare un clima di conflitto e ritengo che evocare il blocco totale del Paese sia un danno per i cittadini che vogliono uscire da questa crisi», accusa il senatore renziano Mauro Del Barba. «Dobbiamo ripartire e non bloccarci. Se la Camusso non lo capisce, evidentemente è fuori da questo tempo e ha perso i contatti con la realtà». E persino un ex sindacalista Fiom come Cesare Damiano, il presidente della commissione Lavoro che ha condotto le mediazioni di questi giorni per conto della minoranza Pd, subito sconfessata dalla Cgil, prende le distanze da invasioni di campo troppo radicali: «Ognuno deve fare il suo mestiere: il Parlamento fa le leggi, e il sindacato si occupa dei contratti», manda a dire alla Camusso. Del resto sono in molti, nel Pd, a guardare con preoccupazione al clima che, anche grazie alle scelte tutte politiche della Cgil, si sta creando. Ha fatto notevole impressione la notizia, trapelata ieri, che il responsabile economico del Pd Filippo Taddei, uno dei collaboratori di Renzi sul Jobs Act (anche se viene dalla sinistra civatiana) sia stato messo sotto protezione a causa delle minacce ricevute. Ieri Taddei ha rivendicato il successo ottenuto con l'accordo sul Jobs Act: «Si limiterà il reintegro a singole fattispecie. Cancelliamo le incertezze e manteniamo i diritti, ma quelli che servono».

Nella minoranza Pd i mal di pancia sono tutt'altro che passati. Ma la manovra renziana ne ha sancito la definitiva spaccatura: «Sono sempre gli stessi, e molto divisi», infierisce il premier. Ognuno va per conto suo; Civati sempre in attesa che venga il momento giusto per andarsene (manca però la meta); D'Alema che ripete ai suoi che Renzi è solo «un episodio», una sorta di intruso da espungere dalla gloriosa storia della sinistra; e poi la vasta area che ha scelto la collaborazione col premier, nella speranza che lo si possa condizionare e - prima o poi - sostituire.

Oggi si riuniranno a Milano per parlare di «sinistra di governo», con Bersani, il capogruppo Speranza e il ministro Martina. Avrebbero voluto anche Nicola Zingaretti, spesso vagheggiato come possibile leader dell'opposizione a Renzi. Ma il governatore del Lazio ha fatto sapere di avere altri impegni.

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