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Jobs Act, giallo sugli statali licenziabili

Ichino: "La riforma vale anche per loro". Ma Poletti e Madia negano. Sindacati sul piede di guerra: sarà sciopero

Jobs Act, giallo sugli statali licenziabili

Roma - I primi decreti delegati sul Jobs Act sono stati appena approvati, e già sulla sua applicazione si aprono diatribe interpretative. Da una parte il giuslavorista e senatore della maggioranza Pietro Ichino, che sostiene la possibilità di applicare le nuove regole su licenziamenti e indennizzi anche al pubblico impiego, dall'altra il governo che lo nega.

Per Ichino, le nuove normative non escludono esplicitamente i dipendenti pubblici e quindi si applicano anche a loro: «Il testo unico dell'impiego pubblico stabilisce che, salvo assunzioni e delle promozioni, soggette al principio costituzionale del concorso, per ogni altro aspetto il rapporto è soggetto alle stesse regole che si applicano nel settore privato», spiega al Corriere della Sera . Ma il ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, nega fermamente: gli statali devono sottoporsi ad un concorso per essere assunti, quindi per loro valgono regole diverse. «Servirebbero disposizioni ad hoc piuttosto complesse per estenderle al pubblico», spiegano dal governo. Netto anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Se si vuol discutere del lavoro pubblico in Parlamento c'è una legge delega», e anche dalla Cgil confermano la dicotomia: le procedure per il licenziamento degli impiegati pubblici sono diverse e più complesse, tanto che - si fa notare - il ricorso si fa al Tar e non al giudice ordinario e alla Funzione Pubblica non si applica la contrattazione ordinaria. Ichino però insiste: «Qualche volta - risponde - anche i ministri sbagliano, concorso non significa inamovibilità. E sbaglia chi voleva l'espressa esclusione dei dipendenti pubblici, come la minoranza di sinistra del Pd e probabilmente anche qualcuno all'interno delle strutture ministeriali». Secondo il senatore di Scelta Civica, che ha seguito passo passo l'elaborazione della riforma del lavoro, nel tragitto tra ministero del Lavoro e Palazzo Chigi, il testo originario ha subito diversi tentativi di modifica, ad opera della burocrazia ministeriale: una norma che pretendeva di escludere dal contratto a tutele crescenti l'intero settore pubblico è stata defalcata prima ancora della presentazione del testo al Consiglio dei ministri: «Ma la negoziazione fino all'ultimo istante del testo legislativo - racconta nel suo blog - ha finito col causare la mattina del 24 il ritardo di tre ore nell'inizio della riunione del Consiglio dei ministri». Insomma, «solo la determinazione di Matteo Renzi ha consentito di sventare gli attentati più pericolosi alla coerenza del disegno, uno per uno». Il premier, via Twitter , rivendica i risultati portati a casa con l'ultima riunione di governo dell'anno: «Svolta su Taranto, lavoro, delega fiscale, nuova presidenza all'Inps, mentre si chiudevano anche le vertenze per Termini Imerese e per Meridiana», elenca. Politicamente, il risultato incassato col Jobs Act lo lascia soddisfatto: grazie all'ultima mediazione, contestata da Ncd (che con Alfano lamenta che alla riforma «è mancata la zampata finale») è riuscito a portarsi dietro il grosso del Pd isolando la sinistra irriducibile dei Fassina e dei Civati, e ha approfondito il solco che separa i sindacati. Resta il no della Cgil, che con la Camusso parla di «grande bluff» e promette «nuovi scioperi», ma la Cisl rivendica i «miglioramenti» ottenuti grazie all'eliminazione dell 'opting out .

Con le nuove norme, peraltro, anche i sindacati (come i partiti e le altre associazioni), i cui dipendenti non godevano delle tutele dell'articolo 18, ora dovranno applicare ai propri licenziandi le regole che valgono per tutti i lavoratori, indennizzo compreso.

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