La partita è virtuale e simbolica, ma le sue ripercussioni potrebbero essere pesanti nel Pd. Matteo Renzi vuole avere un primo via libera al Jobs Act da mettere sul tavolo del vertice europeo di domani, con una brusca accelerazione del suo iter parlamentare e il taglio delle centinaia di emendamenti presentati al testo del governo. E per far questo ieri sera si è fatto autorizzare dal Consiglio dei ministri un eventuale voto di fiducia, che si materializzerà concretamente nelle prossime ore: il testo del Jobs Act è infatti da oggi al voto del Senato.
La minoranza del Pd però si oppone. Una forzatura del governo sul Jobs Act e l'articolo 18 provocherebbe «conseguenze politiche» nel Pd, avverte Stefano Fassina. Il messaggio, spiegano dalla sinistra del partito del premier, non riguarda tanto la sopravvivenza del governo: a non votare la fiducia, a Palazzo Madama, sarebbero comunque pochi: «Alla fine, e mi auguro di non sbagliare, prevarrà il senso di responsabilità e tutti voteranno - dice Matteo Colaninno - Certo, problemi politici ci saranno, ma non credo possano mettere a rischio la tenuta del governo». Più ottimisticamente, il senatore Pd Stefano Esposito prevede che sulla fiducia le defezioni sarebbero solo una manciata, nel partito di Renzi: «Cinque o sei al massimo, certamente meno di quanti ne servirebbero per far cadere l'esecutivo». Ma il contraccolpo nella convivenza interna si sentirebbe: «A forza di logorarla, la tela si strappa», avverte un autorevole dirigente della sinistra tra i più attivi, in queste settimane, nel cercare una mediazione interna al Pd, «rischia di crearsi un clima difficile da gestire, anche per un leader forte e spregiudicato come Renzi: c'è il partito che crolla, gli iscritti in fuga, lui che fa capire che gliene frega poco. Se arriva pure la smentita di una decisione presa in Direzione, la tensione si esaspera».
Il passaggio insomma è cruciale, e questo spiega anche la cautela con cui Matteo Renzi sta maneggiando la questione. Non che tema la fantomatica «scissione» del Pd: del resto, anche uno strenuo contestatore del premier come il senatore Corradino Mineo non ci crede: «Non c'è niente da scindere, la gente che si è stufata se ne è già andata e la sinistra fuori dal Pd ha fallito quanto il Pd. Chi non si ritrova nel nuovo corso renziano andrà a casa, non altrove». Anzi, qualcuno si spinge più in là e ribalta la questione, adombrando l'ipotesi che a volersi «scindere» da quel che resta del vecchio Pci sia il premier: «Spero proprio che non sia Renzi a voler rompere con la sinistra Pd», è la battuta che si lascia sfuggire Gianni Cuperlo.
Il premier non vuole però neppure smentire platealmente una decisione presa dall'organismo direttivo del suo partito dopo un dibattito lacerante. Certo, il documento votato in direzione, con quel compromesso che ha rinfilato i licenziamenti disciplinari sotto la tutela dell'articolo 18, è servito a Renzi innanzitutto per dividere la minoranza interna ed ottenere una vittoria politica sulla sinistra. Ora però i suoi lo richiamano a tener fede a quel testo, che vede invece contrari i partner di Ncd. «Il passo avanti della direzione va reso esplicito nel testo che si voterà. Mettere la fiducia sarebbe un atto grave, tanto più se il testo restasse quello licenziato dalla commissione del Senato», afferma Cesare Damiano. La pressione della minoranza ora si sposterà dunque sui contenuti dell'emendamento governativo su cui verrà posta la fiducia: «Il nostro voto dipenderà da quello», dice Gianni Cuperlo.
«Si vocifera - ironizza Pippo Civati - della possibilità che il governo cambi, se Sacconi gli darà il permesso, il testo uscito dalla commissione, un fatto che renderebbe ancora più incredibile il rapporto tra il Parlamento e l'esecutivo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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