
È l'arma del cibo. A Gaza è rimasta per decenni nelle mani di Hamas. Ora, invece, vorrebbe usarla anche Israele. Il segreto di quell'arma sono gli aiuti alimentari. A distribuirli a Gaza ci pensava l'Onu tramite l'agenzia dell'Unrwa e una miriade di Ong. Hamas, grazie ai suoi infiltrati in quelle organizzazioni, li manovrava indirizzandoli ai clan pronti ad assecondare i suoi ordini e a garantirgli fondi e combattenti. Quando, all'indomani del 7 ottobre, il governo Netanyahu inizia a pensare alla rioccupazione di Gaza negli ambienti della destra israeliana s'incominciano ad abbozzare piani e progetti per rispondere ad Hamas con la stessa arma. Ora l'arma è pronta a funzionare. E a svolgere un ruolo cruciale. Soprattutto se utilizzata nell'ambito del piano Carri di Gedeone, l'operazione con cui l'esercito punta a controllare il 75 per cento della Striscia.
Fino a poche settimane fa l'operazione presentava due incognite. La prima era come convincere 2,1 milioni di palestinesi a seguire i piani israeliani concentrandosi nel Sud di Gaza. Anche perché stando alle stime dell'Idf, solo 850mila civili vivono nella zona meridionale di Khan Younis mentre 110mila sono ancora nelle zone settentrionali, oltre 900mila a Gaza City e 350mila a Nuseirat e dintorni. La seconda incognita era come impedire agli oltre 40mila miliziani di Hamas ancora operativi (stime Idf) di continuare a muoversi tra i civili come pesci nell'acqua. Le risposte si celano nell'acronimo Ghf, la sigla che nei piani concordati da Israele e amministrazione Trump identifica la Fondazione (Gaza Humanitarian Foundation) chiamata a subentrare a Onu e ong nella distribuzione degli aiuti. La Fondazione - registrata negli Usa e in Svizzera, ma di cui non si conoscono fondi e finanziatori - ha aperto ieri il primo centro di distribuzione nel Sud di Gaza e conta di aprirne altri due nelle zone meridionali e uno in quelle centrali.
L'esordio non è stato un successo. Il centro aperto ieri è stato infatti subito saccheggiato. Una volta operativi i quattro centri diventerebbero però - stando alle accuse mosse al governo Netanyahu - l'arma migliore per costringere una popolazione affamata e bisognosa di tutto a concentrarsi nelle zone scelte dai militari. Anche perché con il monopolio degli aiuti nelle mani della Fondazione la chiusura dei 400 centri di distribuzione gestiti fin qui da Unwra e ong sarebbe inevitabile. La prospettiva ha già sollevato la durissima reazione dell'Onu. Secondo il sottosegretario per gli aiuti umanitari Tom Fletcher il piano «favorisce gli spostamenti... restringe gli aiuti a una sola parte di Gaza... condiziona gli aiuti agli obiettivi militari e fa della fame una moneta di scambio». Così il primo ad abbandonare la Fondazione sostenendo di non poterne garantire «umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza» è stato Jake Wood, l'ex marine statunitense veterano delle operazioni umanitarie che e aveva accettato di guidarla.
A rendere il tutto ancor più ambiguo contribuisce il ruolo parallelo dei contractor americani di «Safe Reach Solutions» e «Ug Solutions». Le due compagnie - composte in gran parte da ex agenti Cia ed ex Forze Speciali - hanno il compito di «sterilizzare» le aree di ricollocamento dei civili impedendone l'accesso ai militanti di Hamas.
Ma la presenza di quei contractor armati alimenta anche l'idea di un piano congiunto israeliano-americano che prevederebbe - una volta separati civili e miliziani di Hamas - l'esilio di questi ultimi e dei loro capi verso un Paese mediorientale pronto ad accoglierli. Un'operazione che solo i contractor americani possono garantire.