La parola d'ordine, nel Pd, è «rispetto», la richiesta del Nazareno è di non commentare. Mentre si consuma la surreale comica finale del Movimento Cinque Stelle, con Grillo e Conte intenti a scambiarsi randellate come nel teatrino delle marionette della nostra infanzia, i dem osservano smarriti la resa dei conti e si chiedono che fine farà il capitale politico che, con una certa avventatezza, hanno investito per anni sull'alleanza con i grillini e sulla figura dell'ex premier come traghettatore dei populisti nel centrosinistra.
«Guardiamo a questo momento di rottura e di travaglio (con la minuscola, ndr) complesso con preoccupazione, ma anche con profondissimo rispetto», dice il segretario Enrico Letta, che ieri ha sentito al telefono Conte prima che gli arrivasse il mega-gavettone di Grillo. Il leader dem spera non ci siano «problemi per la tenuta del governo», ma lancia l'allarme per la partita che più gli sta a cuore: «Non è il momento di dividere, perché sull'elezione del presidente della Repubblica bisogna avere idee chiare, essere determinati e stare uniti».
A metter sale sulle ferite dem arriva un perfido tweet di Matteo Renzi: «Tutto davvero molto bene, tutto secondo le previsioni». E la sua previsione è chiara: «Non credo che i 5S arriveranno al 2023».
Con un M5s ormai prossimo a spaccarsi in due o tre tronconi e nessuno che abbia idee chiare su cosa accadrà domani, altro che tra sei mesi, la strategia del «tutti uniti» per il Quirinale pare lievemente utopica. Per il Pd ritrovarsi senza interlocutori politici (Conte) e senza massa di manovra parlamentare (M5s) nella partita del Colle è un incubo: «Una deflagrazione sarebbe un regalo alle destre», implora Letta. Ma non è l'unico guaio: con l'implosione grillina, tutti i dossier politici aperti diventano un rompicapo in cui il Pd gioca senza rete: dal ddl Zan, su cui si vuole andare alla conta in aula, alla Rai: il 7 luglio dovrebbero iniziare le votazioni in Senato per i nuovi membri del Cda, e gli emissari del Pd pestano l'acqua nel mortaio: «Se vogliamo eleggere un nostro nome dobbiamo avere i voti M5s, e in cambio votare il loro. Ma da giorni cerchiamo qualcuno con cui parlare e nessuno di loro è in grado di darci un nome o una risposta», spiega un dem della Commissione di Vigilanza. Peraltro il Pd è diviso tra chi (sinistra orlandiana) vuol nominare Francesca Bria e chi (Base riformista e franceschiniani) punta sul giornalista Stefano Menichini. Anche lì, insomma, si va in ordine sparso, e la fronda contro la linea del segretario monta silenziosamente. Il ddl Zan rischia di esserne il detonatore: il 6 luglio si voterà per mandare il testo in aula, bypassando la commissione, e dal 13 inizierà la giostra dei voti segreti. La linea Letta è: niente trattative e modifiche, prendere o lasciare. Ma nel gruppo parlamentare l'insofferenza è altissima tra chi avrebbe voluto miglioramenti alla legge: «Mancheranno molti dei nostri voti - confida un senatore Pd - sia per ragioni di merito e sia per dare una botta a chi ci sta imponendo una linea identitaria, radical e a rimorchio di un partito che manco c'è più. Ma vi pare che, invece di sostenere il governo, ci mettiamo a fare i grillini reclamando il ripristino di quella boiata del cashback?».
Per non parlare della proposta di nuove regole contro i «cambi di casacca» in Parlamento, lanciata dal segretario: «Ma con che faccia possiamo sostenerla - dice un deputato - dopo che solo 4 mesi fa il Pd ha passato settimane a inseguire e arruolare i più improbabili voltagabbana per sostenere il Conte ter?».
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