
Fin dove si spingeranno gli Stati Uniti? All'indomani dell'attacco ai siti nucleari la domanda rappresenta la più grande incognita politico-strategica. E non trova, fin qui, risposte certe. La promessa di Donald Trump di non coinvolgere l'America in nuove guerre, ricordata dal numero due JD Vance, pesa come una spada di Damocle sulle scelte di Pentagono e Casa Bianca. E ancor di più pesano le incognite legate alle scelte dell'Iran e dell'alleato israeliano.
L'Iran può scegliere tra tre mosse. La prima è incassare il colpo senza far nulla. La seconda è attaccare qualcuna delle 19 basi americane sparse in Medioriente. La terza è tentare il blocco di Hormuz con mine o l'impiego di barchini. Nella prima opzione spera l'amministrazione Trump, pronta a vendersi la scelta nemica come una resa incondizionata e rivendicare un pieno successo. Per contro una reazione iraniana costringerebbe gli americani a reagire con molta forza. Militarmente l'opzione è assolutamente alla loro portata. I quarantamila soldati presenti in Medioriente possono contare sulle centinaia di aerei da combattimento F35, F15 ed F16 posizionati nelle basi di Al Udeid (Qatar), Al Dhafra (Emirati Arabi) e sui bombardieri strategici B2 rientrati a Diego Garcia dopo le incursioni su Fordow della scorsa notte.
Ma il dispositivo militare Usa non si esaurisce qua. Entro breve il Pentagono avrà a disposizione tre squadre navali guidate da altrettante portaerei. La Uss Nimitz a propulsione nucleare dirottata dal Mar Cinese Meridionale - dove navigava fino al 16 giugno - ha attraversato lo Stretto di Malacca e punta sul Medioriente. Dietro a lei si muove un gruppo da battaglia (Carrier Strike Group) con quattro cacciatorpediniere classe Arleigh Burke e un sottomarino d'attacco. Tra i 60 aerei schierati sul suo ponte vi sono gli F/A-18 Super Hornet capaci di trasportare nove tonnellate di bombe in un raggio di 730 chilometri.
La Nimitz si congiungerà alla USS Carl Vinson già operativa nel Mar Arabico. E a queste si aggiungerà, la portaerei Uss Gerald Ford salpata - assieme ad una squadra di almeno sei fra incrociatori, cacciatorpedinieri e navi appoggio - dalla base di Norfolk in Virginia. La presenza di tre portaerei con i relativi "carrier strike group" (gruppi di battaglia) offre un'indiscussa capacità di attacco aereo e difesa missilistica. Ma soprattutto è in grado di garantire la navigazione in quello Stretto di Hormuz minacciato da mine, droni e missili iraniani.
La superiorità navale e aerea non è però garanzia di successo. I bombardamenti - come ha dimostrato l'Afghanistan - non sono quasi mai decisivi per la vittoria. In tutto ciò il legame con l'alleato israeliano rappresenta un'altra incognita. La scelta bellica di Bibi Netanyahu sconta, già oggi, un eccesso di confidenza. La frequenza con cui le testate iraniane bucano il sofisticato sistema antimissile israeliano è dovuta anche alla scarsità di intercettori e alla difficoltà di produrne in tempi brevi. Gli americani rischiano di dover rimediare ai problemi dell'alleato contribuendo all'eliminazione delle batterie missilistiche iraniane.
Tutto ciò rischia di porre le condizioni per una progressiva, quanto temuta, escalation. Un'escalation non diversa da quella già sperimentata in Afghanistan.
In quel caso un conflitto iniziato con la presenza sul terreno di qualche centinaio di militari di Cia e e Forze speciali finì con il coinvolgere - durante il primo mandato di Obama - 90mila soldati americani E si concluse nel 2021 con un disastroso ritiro. Uno spettro del passato che Trump deve evitare a tutti i costi.