Come sarebbe andato a finire il voto in Senato, Matteo Salvini l'aveva capito già da mercoledì. Quando ha definitivamente archiviato la tentazione di far uscire allo scoperto i tre-quattro senatori grillini che sono pronti da mesi a passare alla Lega. L'outing, infatti, sarebbe stato inutile, perché la forbice tra favorevoli e contrari all'autorizzazione a procedere per la vicenda Open Arms era da giorni destinata a essere certamente più ampia. Alla fine non larghissima (149 favorevoli e 141 contrari), ma comunque non recuperabile. Eppure, nonostante la consapevolezza di un risultato sfavorevole, l'ex ministro dell'Interno ieri ha faticato ha trattenere l'irritazione. Un nervosismo, il suo, tangibile nei capannelli con senatori e giornalisti nei corridoi di Palazzo Madama, ma anche evidente in molti passaggi del suo intervento nell'Aula del Senato.
D'altra parte, è indubbio che il leader della Lega sia in questo momento un uomo sotto assedio. Politicamente parlando, s'intende. I fronti si moltiplicano. Da quello del consenso, che - almeno stando ai sondaggi - continua a scendere, fino alle vicende giudiziarie che hanno messo sotto i riflettori il governatore della Lombardia Attilio Fontana. In mezzo i processi, non solo quello di Catania per la nave Gregoretti ma da ieri anche quello di Palermo per l'Open Arms. Per quanto sia curioso che della politica migratoria di un intero governo sia chiamato a risponderne il solo ministro dell'Interno (e non l'allora premier Giuseppe Conte) e per quanto Salvini insista nel dire che si presenterà davanti ai magistrati «a testa alta», è del tutto evidente che si tratta di due giganteschi macigni (non solo per il rischio Severino, ma pure per l'impegno economico e mediatico di sostenerli). Infine, a corollario, la leadership del centrodestra. Perché visti i ragionamenti di cui sopra - insieme al continuo incremento di consensi di Giorgia Meloni - rischia di non essere più così scontata. Soprattutto se nelle regionali di settembre Fratelli d'Italia riuscirà - come pare possibile, se non probabile - a conquistare sia la Puglia che le Marche.
È questo il quadro nel quale Salvini ha deciso di tornare all'antico. E pur presentandosi nell'aula del Senato in giacca e cravatta ha scelto di usare i toni e i modi della felpa. Ritornando a cavalcare il tema immigrazione fino al punto di dire che «se riparte il contagio» da Covid «la colpa è loro». Degli immigrati. Un ritorno alle origini, dopo che per mesi il leader della Lega aveva accantonato l'argomento migranti, poco accattivante in tempi di pandemia. Ma è quello il tema su cui l'ex ministro dell'Interno ha conquistato consensi su consensi e, soprattutto, sulla questione sono settimane che il governo sta infilando una serie di incredibili autogol (non a caso Salvini punta il dito sull'attuale titolare del Viminale Luciana Lamorgese). Così, per la prima volta dopo il lockdown, il leader della Lega torna a picchiare duro sulla questione immigrazione. Ripete più volte che si tratta di un «processo politico», attacca frontalmente Matteo Renzi - perché fino a lunedì aveva davvero sperato che i voti di Italia viva l'avrebbero salvato dal processo - e arriva persino a prendersela con i senatori a vita. «Vedo la loro abbondante presenza in quest'aula e ribadisco che è un'istituzione ormai superata», dice nel suo intervento. Una sortita, spiega un senatore della Lega vicino al leader, che ha come destinatario direttamente il Quirinale. Nonostante a fine votazione - questo dicono a sera i tabulati del Senato - nessuno dei senatori a vita abbia votato, né pro né contro Salvini.
L'ex ministro dell'Interno, insomma, ieri ha vestito di nuovo i panni del leader della Lega, tornando a cavalcare il tema migranti e giocando all'attacco su tutti i fronti.
Anche sul delicato caso Fontana, che proprio lui volle come candidato governatore della Lombardia. «Hanno detto che gli ho chiesto chiarimenti, lasciando intendere che ho dubbi su di lui. Una gigantesca sciocchezza, una cosa da querela...», è sbottato nei corridoi del Senato.
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