Roma - Vista con gli occhi dell'esperienza, ovvero della saggezza, le cose poi stanno esattamente come le mette giù Sergio Zavoli, guru del giornalismo nonché senatore decano. Siamo tutti sotto ricatto, sostiene Zavoli. «Stiamo approvando una riforma spaventosa ma, se casca questo governo, è la barbarie. Se Renzi fallisce si apre una voragine pericolosa».
Magari la parola «ricatto» non piacerà a Palazzo Chigi, eppure è quella che esprime con efficacia pure la faccia opposta della medaglia, il successo della strategia applicata fin qui dal premier. A detta dei renziani doc (sempre più ammaliati), anche in Europa Juncker «ha adottato il metodo Renzi». Con un mondo così «renzizzato» è inevitabile che il segretario del Pd si conceda l'ennesima passerella, stavolta in diretta streaming davanti ai parlamentari Pd, per metterli a parte di quelli che saranno i prossimi «mille giorni» (mille giorni di successi mirabolanti, secondo l'ovvia prospettiva di Matteo). Il leader preannuncia per agosto e settembre un bel po' di viaggi nell'Italia che soffre (che magari sanno pure di pre- campagna elettorale). Un po' blandisce i suoi, un po' li sferza. Ma il «primo segno di vita» (ipse dixit) dell'assemblea arriva solo quando chiede a deputati e senatori di «prendersi poche ferie». Abbiamo fatto troppi decreti, spiega, e ora c'è un po' di lavoro che ci attende: «Non ci possiamo sottrarre, perché dopo il 40,8 per cento la gente aspetta che cambiamo il paese... ci hanno dato un'occasione, sta a noi non sprecarla». Il catalogo è lungo, e Renzi lo snocciola con dovizia, persino con malizia fino a stroncare gli interlocutori: dalla PA alla giustizia, dalla scuola ai ministeri allo «sblocca Italia» annunciato per il 31 luglio (pacchetto per le infrastrutture e per sbloccare i fondi europei). Un richiamo all'ordine e all'orgoglio pidino che si accompagnerà alla solita attenzione per «come comunichiamo le cose», a un mega-populismo libero da complessi, e persino a un diversivo gigantesco («la rivoluzione che vogliamo fare») che faccia passare senza traumi in secondo piano la riforma che si andrà a votare in Senato e l'italicum che vorrebbe fare con Grillo ma anche con Berlusconi.
Quel che poteva essere un percorso minato, e un passaggio sul ponte traballante delle riforme a Palazzo Madama, sembra perciò poter diventare ciò che il premier desiderava: una vetrina del modo di procedere, e un «format» che verrà applicato in forma seriale (speriamo non virale). «Riforme spot» le definiscono i leghisti. Così anche ieri mattina, all'assemblea dei senatori che doveva fissare la linea del Piave tra «noi» e «loro», ed emarginare la dissidenza interna, c'è stato poco da emarginare.
Alla fine della mattinata, la dissidenza interna s'è liquefatta. Un solo astenuto (Mucchetti), 86 sì alla riforma e diciannove «ribelli in sonno» che forse s'attendono di poter ottenere alcune concessione su qualche emendamento, e che ora tutti s'attendono diplomaticamente assenti anche alle votazioni in aula sui punti più dolenti della riforma. Anche perché, come ha spiegato la vice-segretario Debora Serracchiani, «la libertà di coscienza, in materia di riforme, è esclusa».
Ma dove la strategia renziana sta ottenendo risultati insperati (sempre che non si tramuti in un vacuo gioco del cerino) è nella collaborazione con i Cinquestelle.
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