L'autogiustizia dei giudici: chi sbaglia non paga mai

Nei procedimenti disciplinari al Csm le condanne sono irrilevanti. Così le toghe mantengono posto (e stipendio)

L'autogiustizia dei giudici: chi sbaglia non paga mai

C'è chi si dimentica di liberare un imputato entro i termini previsti, come quel poveretto che è rimasto trentasette giorni in più dietro le sbarre perché il gip non si era premurato di ordinare la sua scarcerazione. C'è anche chi si è letteralmente inventato un provvedimento «non previsto dalle norme vigenti», con cui anziché sottoporre a interrogatorio una nigeriana accusata di riduzione in schiavitù e sfruttamento, l'ha liberata perché l'ordine di arresto era «in una lingua a lei non conosciuta». L'errore, definito dai giudici disciplinari «macroscopico», è solo un esempio delle storie che macchiano il buon nome delle toghe italiane. Che però, nella maggior parte dei casi, quando sbagliano se la cavano con qualche tirata d'orecchie, mentre il comune cittadino è costretto a misurare la propria vita con il caos calmo della giustizia. Colpevole o innocente, spesso vittima inconsapevole degli errori di chi lo giudica.

Sviste, interferenze, ritardi, violazione degli obblighi di diligenza, inescusabili negligenze. L'altra faccia della magistratura si materializza ogni anno in 170-190 procedimenti all'esame nella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il regno dove giudici giudicano altri giudici. Dove si infliggono sanzioni ma molte più volte si assolvono i colleghi distratti sotto le formule di «irrilevanza del fatto», «insussistenza», «non luogo a procedere». Appena il 70% delle richieste finisce col rinvio a giudizio e poco meno del 50% dei processati subisce una condanna, secondo fonti del Csm. Per non parlare di certi comportamenti «riprovevoli» che sfuggono alle maglie che classificano gli illeciti disciplinari: condotte che germogliano nella zona grigia che esula dall'esercizio delle funzioni e pertanto non sanzionabili. Non per questo meno disonorevoli.

Quando e se si arriva a condanna, fioccano ammonimenti, poco più che un invito a fare più attenzione, censure, un semplice biasimo formale, molto più raramente si registrano sospensioni dall'incarico. Poco male, visto che i magistrati che vi incorrono incassano comunque i due terzi del loro stipendio. Quasi mai si arriva alla rimozione, la sanzione più pesante prevista dall'ordinamento: «Io in questi anni non ne ho viste» dice Pierantonio Zanettin, membro laico del Csm. Così, se il sistema disciplinare viene sventolato a garanzia dell'autonomia della magistratura, la credibilità dell'autocritica della categoria rischia di sgonfiarsi in un «sistema inefficace - aggiunge Zanettin - in cui troppe volte certe opacità sono rimaste tali».

I numeri snocciolati in un convegno di Magistratura indipendente a Torino dal già vicepresidente del Csm Michele Vietti rivelano che dai procedimenti svolti dalla sezione disciplinare tra settembre 2014 e gennaio 2017, sono uscite 122 condanne, 118 assoluzioni, 124 ordinanze di «non luogo a procedere» e 17 sentenze di «non doversi procedere».

Al primo posto nella classifica delle lacune dei magistrati, oltre alle violazioni delle libertà personali e delle garanzie dell'indagato, come le tardive scarcerazioni per negligenza, ci sono «incoerenza e mancanza» delle motivazioni e clamorosi ritardi nelle sentenze. Un giudice invece ha pensato di sbrigarsela con un verdetto di assoluzione facendo copia e incolla dell'arringa difensiva dell'avvocato. Un suo collega ha collezionato ritardi, superiori a un anno, nel deposito di 164 sentenze. Errori «formali» che diventano «sostanza» micidiale quando la giustizia intercetta vite, storie, persone. Se i procedimenti svolti dal Csm confermano la «serietà» e il rigore nell'autogiudizio, secondo Vietti però «non tutto funziona». La «tipizzazione degli illeciti lascia non poche smagliature», apre varchi di impunità che non permettono «di intercettare condotte riprovevoli» perché non classificate dalle norme. Così comportamenti «irrispettosi» scivolano nell'oblio grazie a «formule tortuose». Un magistrato per un anno ha fatto campagna elettorale per diventare vicesindaco della propria città con una lista collegata a un partito.

È stato assolto perché la partecipazione alla vita politica «non si è configurata come continuativa» e passibile di sanzione.

Contraddizioni. Paradossi. E l'ammonimento: «La materia disciplinare - avverte - non diventi una trincea in cui l'ordinamento si chiude a difesa di se stesso e delle sue prerogative».

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