Coronavirus

Al lavoro o a scuola e col calcio. E la chiamerebbero estate

Ferie esaurite, esami e campionati da recuperare. E al mare avremo forse il segno della mascherina

Al lavoro o a scuola e col calcio. E la chiamerebbero estate

Andrà tutto bene, e arriverà l'estate. Sì, ma come? Non certo la morbida, indolente, eterna estate italiana. Perché sembrava di dover lasciar solo passare una pausa e invece «andremo lunghi», lunghissimi con questa peste.

Oltre alle vite, agli abbracci, al vecchio lessico (plateau, picco, pronato... quanto è brutta e umiliante questa parola?!); oltre ad un'economia conquistata a fatica, alle abitudini di «un tempo» e alle vite di «prima», il Coronavirus si porterà via anche l'estate. Non gli è bastato nulla, nemmeno aver reso questa primavera un gelido sbadiglio che morde le ossa. Si prenderà l'estate e se non altro morirà con lei (secondo alcuni il caldo sarà deleterio per il nostro nemico invisibile), ma intanto ci scipperà anche quella. Sarà un sole inutile e avrà un ritmo lugubre quello del 2020, niente Gianna Nannini ed Edoardo Bennato a farsi ispirare una colonna sonora. I ragazzini dovranno forse recuperare le tante lezioni perse e gli esami, trascorrendo un luglio con la testa china sui libri, inchiodati ai banchi dopo essere stati murati in casa. Malgrado questi strani mesi di maestre via web, di chili di compiti a casa, di prove virtuali, malgrado la goffa e improvvisa digitalizzazione di genitori nel tentativo di farli rimanere connessi a distanza con scuola e compagni di classe. Gli adulti dovranno, nella maggior parte (e nella miglior parte) dei casi, lavorare. Per recuperare tutto ciò che è stato perso e perché non avranno più ferie a disposizione, avendole usate nel frattempo per rimanere tappati in isolamento o in quarantena. E d'altra parte saranno aperte anche le aziende, nel tentativo di risollevarsi, di non soccombere a causa dei mesi immobili, di far ripartire le produzioni, di far «girare l'economia», chissà se si dirà ancora così, perché nulla come un virus ci ha resi vetusti, improvvisamente superati da noi stessi, nostro malgrado e al contempo per nostra speranza. Le aziende aperte e le arie condizionate chiuse, si suppone. Perché non c'è nulla che veicoli di più e più in fretta i batteri. E noi coperti, perché la pelle non ci protegge.

E il calcio... se davvero decidessero di terminare il campionato, le coppe europee e la coppa Italia sospesi per l'esplosione del Covid 19, avremmo un'estate di partite fino al 31 luglio (per tacere dell'ipotesi pessimista che le protrarrebbe fino ad agosto). Calura e tifo e finestre spalancate sull'asfalto fondente. E forse senza il conforto di un gelato, che fine faranno quei coni voluttuosi esposti alla scelta del pubblico e allungati gocciolanti da una mano all'altra?

E per chi dovesse riuscire invece a vederlo, il mare, come sarebbe? Intanto arrivarci, in nave o in aereo. Come si viaggerà, per allora?

E una volta arrivati, la spiaggia? Con gli ombrelloni distanziati e le porzioni d'acqua invisibilmente recintate, e il segno della mascherina al posto di quello degli occhiali da sole, o forse nessuno, perché tanto la paura rende lividi, e quella non si scioglierà col caldo. E poi i kit di autoanalisi per il coronavirus (pare che verranno distribuiti proprio in estate), nella borsa frigorifera assieme alle pesche noce e alla bottiglia d'acqua etichettata col proprio nome. E l'incubo degli asciugamani, sfregati sulla faccia dopo il bagno, che «il mio non avvicini il tuo». Distanze, mascherine, tamponi, sirene: tutto è simbolico in modo opprimente. E noi prigionieri di un improvviso eccesso di spazio, in esilio da qualunque geografia. Al sole, sentendo freddo.

E la chiamano estate.

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