Il contesto è molto cambiato, ma lo storico viaggio del luglio 1971 di Henry Kissinger a Pechino sembra fornire ancora ispirazione. Mezzo secolo fa, l'allora segretario di Stato americano decise di spezzare con una missione segreta l'isolamento della Cina di Mao Zedong: recuperarla a un clamoroso dialogo con il nemico ideologico statunitense faceva certamente comodo al regime comunista cinese, ma serviva a Washington per allontanarla dall'Unione Sovietica, che era allora di gran lunga il rivale più temibile per gli Stati Uniti. Kissinger aveva fatto comprendere al presidente Richard Nixon che sarebbe stato molto pericoloso se la Cina rossa, che aveva appena ottenuto il seggio all'Onu appartenuto alla Cina nazionalista di Taiwan in rappresentanza dell'intera nazione cinese, avesse trovato in Mosca un alleato. La successiva visita di Nixon a Mao fu eccellente e si parlò della «settimana che cambiò la storia».
In questo 2022, il riavvicinamento tra Pechino e Mosca è nel frattempo avvenuto, con rapporti di forza invertiti rispetto a cinquant'anni fa: ora il Dragone è il più forte dei due, mentre le relazioni sino-americane sono in grave crisi. Xi Jinping e Vladimir Putin si sono incontrati alle Olimpiadi di Pechino per certificare lo stretto legame tra i due maggiori nemici mondiali dell'Occidente, un'alleanza politica, economica e anche militare i due Paesi tengono ormai esercitazioni comuni - che soprattutto i cinesi non perdono occasione per definire «d'acciaio». Nel frattempo, però, Putin ha ordinato l'invasione dell'Ucraina e la relazione tra i freschi alleati si è complicata. Attenzione: complicata, non guastata. Certamente Xi era informato dei piani del suo socio, che non a caso ha atteso la fine dei Giochi in Cina per agire. Tuttavia giorno dopo giorno questa evidenza cresce la guerra in Ucraina non sta andando liscia come Putin sperava. Tale è anzi l'intensità della resistenza del Paese invaso che uno dei massimi diplomatici cinesi in Occidente si è spinto a definire la situazione «sconcertante».
Xi è in imbarazzo. Le sanzioni occidentali stanno al tempo stesso mettendo in ginocchio l'economia russa e creando problemi a quelle europee, e in parte anche a quella degli Stati Uniti: nessuna delle due cose conviene a Pechino, che ha bisogno di una Russia stabile (la stabilità è l'ossessione del regime cinese) e non vuole vedere ridurre i suoi fruttuosi commerci con l'Europa temendo ricadute interne. Xi si trova così, suo malgrado, davanti a un bivio: non è interesse della Cina che il conflitto ucraino degeneri, ma nemmeno che Putin esca umiliato da questa avventura militare che ne ha già irreversibilmente devastato l'immagine. D'altra parte, è purtroppo possibile che un Putin in crescente difficoltà decida proprio di rilanciare militarmente, portando la sfida con l'Occidente nel campo pericolosissimo dove si sente più forte: il confronto nucleare. Xi dovrà dunque scegliere: o seguire il suo alleato Putin fino in fondo nella sua battaglia, oppure accogliere le pressioni americane per farlo ragionare.
E qui si ritorna al triangolo kissingeriano. Biden cerca di intervenire su Pechino attraverso la diplomazia, e l'incontro di ieri a Roma è il capitolo visibile di questo lavorìo teso a distanziarla dalla Russia. Ma alza anche la voce con la Cina, e la minaccia di pesanti sanzioni se aiuterà Putin a dribblare quelle che lo stanno affossando o se, peggio ancora, gli fornirà il sostegno militare che il Cremlino avrebbe richiesto. Da Pechino si sono affrettati a negare questa richiesta, ma fonti americane citate dal Financial Times affermano che un'apertura cinese in questo senso c'è invece stata, e Washington ne ha informato gli alleati.
Il passaggio è delicatissimo: Putin minaccia l'Occidente di terza guerra mondiale se la Nato aiuta Kiev, ma poi chiede aiuto alla Cina. E siccome non si può far finta di niente, siamo in mano alla razionalità dei cinesi.
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