Politica

Lesse la sentenza prima dell'arringa: «Non è reato»

Altro che giusto processo, nei tribunali spuntano testi imbeccati e sentenze copia e incolla

Per capire lo stato della giustizia in Italia basta farsi un giro nei tribunali italiani, dove succedono cose incredibili, nell'indifferenza generale. Ci sono notizie che non finiscono sui quotidiani nazionali - soprattutto nei giornaloni e delle gazzette delle Procure - e quando succede, apriti cielo. Ieri grazie al Corriere della Sera abbiamo appreso che leggere la sentenza di condanna prima di aver ascoltato l'arringa dell'avvocato non è reato. Lo ha deciso la Procura di Milano. Secondo la gip Manuela Cannavale, che ha sposato la linea della pm Cristiana Roveda e del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, questa palese violazione dei diritti della difesa non è che un fatto «abnorme» frutto di un «macroscopico errore». Un peccato veniale, insomma. Certo, il giudice che l'ha commesso è destinato a essere «sanzionato in sede disciplinare». E il fatto che abbia strappato la sentenza perché preso dal panico? Secondo il quotidiano di via Solferino, il fatto non configura il reato di «falso per soppressione dell'atto» perché - si legge - la sentenza (peraltro ristampata e spedita al proprio dirigente) è stata letta in pubblica udienza ha «formalmente assunto giuridica esistenza».

Qualche giorno fa al tribunale di Padova, un pubblico ufficiale teste d'accusa aveva tra le mani un foglietto con le domande scritte dal pm di suo pugno. I difensori hanno chiesto l'esclusione della testimonianza, ma il Tribunale, ha negato l'eccezione: «Valuteremo». Come se il codice di procedura sulle prove acquisite in violazione di un diritto andasse «interpretato» e non applicato.

Nella Corte d'Appello di Venezia, invece, qualche settimana fa si è assistito a un'altra abnormità procedurale: atti di impugnazione giudicati infondati e notificati via posta certificata tre giorni prima dell'udienza e con motivazioni «copia e incolla» prese da una sentenza del 2016. La Camera Penale denuncia «uno sconcertante quadro documentale che rischia di legittimare l'ipotesi che esista una sorta di prassi di precostituzione del giudizio, non solo rispetto alla camera di consiglio ma anche alla discussione delle parti».

Tutto a posto, verrebbe da dire. Chi se ne frega del giusto processo, della parità processuale tra accusa e difesa, dell'ennesima umiliazione dell'avvocatura? Nessuno, appunto. Né la magistratura, troppo impegnata a difendere se stessa tanto da arrivare al paradosso del caso Palamara, a un Csm imballato, a un magistrato come Piercamillo Davigo che si ostina a voler giudicare l'ex leader Anm nonostante sia stato chiamato come teste in aula. Né tantomeno la sedicente stampa libera, troppo occupata a non disturbare i manovratori per paura di restare senza niente da scrivere. È l'ingiusto processo, ma non si può dire e non è neanche reato. E i diritti della difesa? Sono come le date di scadenza sui barattoli della Nutella.

Inutili.

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