V ent'anni dopo, il mito non è più un sole caldo che riesca a scaldare la pelle. Diana Spencer appartiene a un passato che non è nemmeno remoto. È semplicemente un tempo che non esiste più, nemmeno nelle favole. Queste, narrate e illustrate quasi come in una antologia, sono state bruciate da storie niente affatto fiabesche. La principessa triste, la principessa del popolo, Lady D, infine, oggi è un quadro al quale hanno cambiato la cornice.
La madre di William e Harry piuttosto che la moglie di Charles. La donna sola e depressa, più che la nobile sorridente e affabile, la traditrice tradita, figura di profilo dopo essere stata centrale, bellissima rivestita dai sarti italiani dopo le prime esibizioni castellane, bambola vera nel museo delle cere che è la grande corte dei Windsor, estranea da sempre a una famiglia lontana da tutto e così vicina ai sudditi che non potrebbero farne a meno ma nulla farebbero per mantenerli ancora a lungo. Diana Spencer, vent'anni dopo quella notte parigina, è un'immagine che ha perso la sua luce, non totalmente ma, di certo, l'aureola di santa ma non beata, vittima dei congegni malefici di Buckhingham, di un consorte noioso e, fondamentalmente, falso, di un ruolo che le apparteneva per censo ma non frequentava ormai più, sperando e cercando di trovare, altrove e altro, la vera vita dolce, un suo regno da scegliere anche quotidianamente, come le era accaduto proprio con Dodi Al Fayed.
Raccontano, le portinaie di South Kensington, che l'amante di Diana le fissò un appuntamento da Harrods, alle sei e trenta del pomeriggio di una domenica. Mezzora dopo l'orario di chiusura. Le undicimila trecento lampadina erano ancora accese lungo la facciata esterna. Dentro: il buio. Totale. La Bentley si fermò in Brompton Road, Diana scese, coperta da un cappuccio, quando entrò intravvide Dodi in cima alla scalinata di marmo. Tutte le luci dell'emporio si accesero di colpo, come in una magia, Dodi Al Fayed disse: «Accomodati e prendi quello che vuoi. È tutto tuo». Questo raccontano i cantastorie di un amore tragico, questo fu, forse l'incantesimo che ingannò molti, non certo la regina, sicuramente non Filippo di Edimburgo, mentre Charles aveva già altri di cui occuparsi. Era il tempo in cui qualunque cosa si potesse dire, scrivere, pensare anche, della coppia nobile, comunque era una partita tra angeli e demoni, lei innocente, lui colpevole. La storia di Harrods è così bella da raccontare agli amici che ascoltano increduli che forse tale debba restare, all'interno del film «reale» ma non realistico.
Così come la notte al Ritz di Parigi, la corsa per sfuggire ai fotografi, la luce accecante dei fari e dei flash, il buio del tunnel dell'Alma, istantanee macabre che nessuno ha voglia di rivedere ma che tutti hanno voluto vedere, sbirciando l'epilogo come in una pellicola thriller, da Oscar. Diana era un fastidio per la corte, lo era per suo marito, non certo per i suoi figli e per il grande popolo che credeva al sogno, alla favola della principessa e del nuovo principe azzurro. Poi sono spuntati altri cavalieri, altri pretendenti non alla corona ma a una donna in preda a una crisi di identità, non più regina, non più moglie, ancora madre, ma, infine, solitaria, sfinita, finita, morta.
Vent'anni dopo, Diana Spencer è una fontana nel parco di Londra, è una serie di memorabilia nei negozi di Covent Garden, è un album di fotografie e di filmati che non commuovono come, invece, rigarono il volto, di lacrime e di strazio, quando, il sei di settembre del Novantasette, il pomeriggio del funerale, Elton John cantò l'omaggio alla Rosa d'Inghilterra:
E mi sembra, hai vissuto tutta la tua vita
Come una candela nel vento.
Non sei sbiadita con il tramonto
E quando inizia a piovere,
I tuoi passi percorreranno sempre
Le verdi colline inglesi.
La candela è bruciata molto prima di quando
È apparsa la tua leggenda.
Nella nuova fiaba del popolo, c'è un'altra rosa d'Inghilterra, un'altra principessa.
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