«L'unica cosa su cui siamo d'accordo tutti è che bisogna trovare un nome condiviso, ma per arrivarci abbiamo ancora in testa strade diverse», dice un influente parlamentare del Pd reduce dalla Direzione allargata ai gruppi di Camera e Senato per discutere di Quirinale. Non potrebbe essere altrimenti, perché al Nazareno sono consapevoli che stavolta, dati i numeri, sono impossibili le prove di forza per imporre un candidato di centrosinistra. Il segretario Enrico Letta dice che «non c'è nessun diritto di precedenza che il centrodestra può vantare nell'indicare il presidente della Repubblica», eppure i dem sanno bene che il boccino è nelle mani di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi. Per questo motivo in alcuni settori del Pd è forte il sentore di essere stati bruciati sul tempo da Matteo Renzi, che ha già detto che appoggerebbe un candidato di centrodestra che non sia Berlusconi. «Dobbiamo darci una mossa, serve un'accelerata», spiega un deputato ex renziano. Letta invece procede con il freno a mano tirato, pur cercando un dialogo sottotraccia con gli altri leader. Il segretario propone un «patto di legislatura» per eleggere un capo dello Stato «super partes», rafforzare il governo «per i prossimi 14 mesi» e fare delle riforme «per una buona politica». L'unico nome che fa è quello del premier in carica. «Dobbiamo salvaguardare la figura di Mario Draghi», dichiara Letta. Parole che vengono interpretate come un endorsement per il trasloco dell'ex Bce al Colle. Un orientamento che suscita non poche perplessità, soprattutto tra i «Giovani Turchi» di Matteo Orfini e nella corrente Base Riformista di Luca Lotti e del ministro Lorenzo Guerini. «Senza un accordo sul governo l'ipotesi Draghi è difficile» è la linea dei parlamentari dem spaventati dall'instabilità.
Nel Pd ci sono tre scuole di pensiero. C'è Letta che vorrebbe Draghi al Quirinale, Orfini e i suoi insistono sul Mattarella bis, infine i riformisti, più aperti a un dialogo su «una figura moderata». Da quelle parti circola il nome di Pier Ferdinando Casini, ma bisogna prima sperare nel ritiro di Berlusconi. Se si andasse alla quarta votazione il bivio sarebbe tra «scheda bianca e un nome condiviso con i nostri alleati», dice il segretario. «La scelta di ieri del centrodestra ci ha deluso, hanno scelto il candidato più divisivo», sospira il leader del Pd. Reagisce Salvini: «Non accettiamo veti, esclusioni o arroganze». «È la solita doppia morale della sinistra, nel 2013 l'attuale leader del Pd elemosinava i voti di Berlusconi salvo poi definirlo entusiasticamente un grande quando il Cavaliere assicurò la fiducia al governo Letta», attaccano i capigruppo della Lega di Camera e Senato Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Chiede un colpo di reni il senatore Alessandro Alfieri, coordinatore di Base Riformista: «Non possiamo non giocare la partita, non possiamo non interpretare il nostro ruolo». Orfini invita ad «assumere un'iniziativa politica forte». Alla fine il parlamentino dem approva all'unanimità la relazione di Letta, restano le divisioni sotto il tappeto.
Prova ad agire in silenzio il M5s. Conte incontra informalmente ministri, vicepresidenti, capigruppo e i 4 coordinatori dei comitati politici Chiara Appendino, Alfonso Bonafede, Gianluca Perilli e Fabio Massimo Castaldo. Il tema è la strategia sul Quirinale, anche se i grillini si muovono su un campo minato. Al Senato, sempre più incontrollabile, scoppia la bomba dello Staff comunicazione.
I vertici del gruppo a Palazzo Madama incontreranno domani la responsabile della comunicazione Ilaria Loquenzi e nel mirino finisce anche Rocco Casalino. «Sul Quirinale i senatori non voteranno mai quello che indica Conte», sintetizza un parlamentare. Giallorossi al buio.
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