«Nome condiviso e patto di legislatura». Alle nove di sera, dopo un frenetico giro di telefonate a interlocutori del centrodestra e di consultazioni interne, Enrico Letta cerca di buttare la palla dell'impasse generale nel campo altrui. «Il centrodestra non è maggioranza e non ha quindi alcun diritto di prelazione sul Quirinale», dice. «Lo avevamo detto fin dall'inizio e ora, col ritiro di Silvio Berlusconi e lo scontro deflagrato al loro interno è tutto chiaro. Adesso serve un accordo alto su un nome condiviso, e un patto di legislatura sul governo».
Appesi fino a tarda sera alle decisioni di Silvio Berlusconi e agli instabili equilibri del polo antagonista, i dem hanno vissuto la giornata di ieri con il fiato sospeso. «State bloccando il paese», accusava al tramonto una velina del Nazareno. «C'è un impossibile assalto al Quirinale» da parte del centrodestra, assalto che «respingiamo e non consentiremo».
La paura, al Nazareno, era di ritrovarsi davanti a proposte «irricevibili», a nomi di parte su cui sarebbe impossibile per i dem aprire il confronto, e che potrebbero invece aprire varchi nel ventre molle (e incontrollabile) del centrosinistra, ossia M5s. Pronti, è il forte timore del segretario Pd, a inseguire qualsiasi sirena e a riscoprire il proprio feeling con Salvini e la destra in generale, frantumandosi in mille rivoli. Il «caso Fraccaro» è stato un campanello di allarme pesante; ma anche le mille trame di Gigino Di Maio la cui eco è rimbalzata tra gli alleati, e la chiara impossibilità di Giuseppe Conte a dare garanzie di qualsiasi tipo. «I numeri lo certificano: nessuno ha la maggioranza in questo Parlamento - si fa ribadire dal Nazareno - e non è con una campagna mediatica martellante che il centrodestra la otterrà». Poi l'appello accorato: «Si ragioni su questo nell'interesse della nazione».
I messaggi che arrivano dal centrodestra sono confusi, prima trapela il veto di Meloni su Draghi, poi Meloni fa fare dietrofront e nega mentre Salvini (più volte compulsato da Letta durante la giornata) assicura che si farà una rosa di «nomi» e non uno solo e, soprattutto, Berlusconi invoca il «bisogno di unità» del paese, «al di là della distinzione tra maggioranza e opposizione». Dal dem Andrea Marcucci arriva un riconoscimento al Cavaliere: «La sua è una decisione responsabile. Ora bisogna lavorare a una candidatura condivisa: l'esigenza di unità del paese deve essere una priorità per tutti coloro che ne hanno a cuore il futuro». Anche il lettiano Walter Verini incita all'unità: «Adesso è il momento lavorare insieme, perché non c'è un diritto di prelazione in questo Parlamento, per un profilo di altissima valenza morale, istituzionale e internazionale. Questo chiede il Paese, questa è la risposta che bisogna dare insieme alla garanzia di stabilità e continuità dell'azione di governo».
Come, quando, con chi non pare chiaro a nessuno. Anche perché la variabile Draghi è una gigantesca incognita per tutti: gran parte della politica non vede l'ora di liberarsi della sua autonoma forza, ma non sa come farlo senza rimanere sotto il crollo che una sua fuoriuscita causerebbe. «Se Draghi verifica che la avversione e ostilità dei partiti nei suoi confronti cresce troppo - ragiona un suo supporter nel Pd - lui è l'unico che può permettersi di dire: arrivederci e grazie, e svincolarsi dal governo al primo capriccio di Salvini o di Provenzano. E il terremoto sarebbe incontrollabile». Lo fa notare anche Carlo Calenda: «Dire no Draghi al Colle, come ha fatto il centrodestra, senza rendersi disponibile per un patto di legislatura serio, rischia di portarci a perdere Draghi per entrambe le posizioni. Questo rischio aumenterà se non si sceglierà insieme una candidata o candidato di altissimo profilo».
E nel Pd (ma non solo) molti non fanno mistero di sperare che dal caos emerga come soluzione unica il Mattarella bis, visto come il modo più sperabilmente indolore per evitare l'ipoteca Draghi senza far saltare subito il governo.
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