Il Pd di Enrico Letta si gode il successo dei ballottaggi, e la parola del giorno: «contendibile».
Le crepe vistose nel centrodestra e la débâcle di tanti suoi candidati, dal sud al profondo nord, alimentano la speranza che la storia delle prossime politiche non sia già scritta. E che persino in Regione Lombardia, che andrà al voto insieme al Lazio in abbinata alle elezioni nazionali (fine maggio 2023, si prevede) possa essere ribaltato il lungo monopolio azzurro-leghista. Le vittorie di Lodi, Monza, Crema ecc. alimentano la speranza, ma il centrosinistra non ha ancora un candidato: Sala, il più gettonato, non ne vuol sapere. Si discutono i nomi del tecnico Cottarelli o della giovane dirigente dem Lia Quartapelle, ma la soluzione è ancora lontana. Mentre nel Lazio, dove il Pd ha incassato sonore sconfitte ai ballottaggi, è in corso un duro scontro tra apparati: da un lato Dario Franceschini e il suo luogotenente Astorre vogliono candidare Leodori, attuale vicepresidente, mentre Bettini e Zingaretti puntano su Gasbarra.
Enrico Letta, prudentemente, si tiene lontano dai trionfalismi di alcuni dei suoi, ben sapendo che «le elezioni politiche sono una gara assai diversa», come dicono i suoi. Continua a difendere la strategia del cosiddetto «campo largo»: «Lo prendevano in giro in tanti, ma le prese in giro si sono rivoltate contro chi le faceva». E però manda anche un messaggio severo a quello che fin dall'inizio è stato il principale interlocutore del «campo largo», ossia il M5s di Conte: «Questo risultato - sottolinea - non solo rafforza il governo Draghi e il suo lavoro, ma premia innanzitutto la nostra serietà, responsabilità e linearità». Altro che gli strappi, le minacce, i «pacifismi» filorussi e i continui cambi di fronte dell'ex premier grillino.
Pochi lo dicono apertamente, ma anche al Nazareno è chiaro che in realtà il «campo largo», ossia la strategia di alleanza privilegiata coi grillini iniziata con la segreteria Zingaretti durante il Conte 2, è defunto. Mentre Carlo Calenda ribadisce che non farà alleanze. E ieri non è passato inosservato l'affondo del governatore emiliano Bonaccini: «Abbiamo perso due anni a correre dietro a M5s, come se dovessimo aspettare ogni giorno quello che decidevano loro», dice, e incita Letta: «Il Pd sia perno» di un coalizione «europeista e riformista» ma «fondata sui programmi» e non su evanescenti addizioni numeriche. Lo stesso dicono sindaci dem importanti, come il fiorentino Nardella e il torinese Lorusso. Letta evoca più cautamente un «modello Verona», alleanza larga, aperta al centro moderato e con i 5S ai margini, attorno a un candidato civico. Ma celebrare le esequie ufficiali del «campo largo» per ora è tabù. Anche perché c'è all'orizzonte il pasticcio Sicilia da oltrepassare: lì, con scarso tempismo, sono state fissate per il 23 luglio le «primarie di coalizione» cui parteciperanno la dem Caterina Chinnici, Claudio Fava della sinistra e un candidato grillino ancora da definire, presumibilmente Giancarlo Cancelleri se otterrà la deroga dal famoso «secondo mandato». Primarie che oggi appaiono quanto meno improvvide, visto che M5s è andato malissimo anche in Sicilia, dove un tempo trionfava.
Chiunque le vinca, alle Regionali di ottobre il centrosinistra non pensa di avere chance: seppure il centrodestra si suicidasse, dividendosi sul successore di Musumeci, c'è già in campo un contenitore iper-populista, guidato dall'ex sindaco di Messina De Luca (che ha assoldato l'ex grillino Giarrusso) pronto a assorbire consensi da 5S e destra.
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