L'Europa dà ordini al governo: Jobs Act in cambio di flessibilità

Se passa l'abolizione dell'articolo 18 Bruxelles può concedere una tregua sul rigore. La riforma sbarca in Senato e il ministro Poletti va in pressing: bisogna fare in fretta

L'Europa dà ordini al governo: Jobs Act in cambio di flessibilità

Il Jobs Act come contropartita della flessibilità. O, meglio, l'eliminazione dell'articolo 18 (cioè la possibilità di licenziare un dipendente senza giusta causa) è una richiesta esplicita dell'Unione europea che potrebbe «ricambiare la cortesia» concedendo all'Italia un po' di respiro sul fronte del deficit e del debito pubblico.

La circostanza è stata implicitamente confermata dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ieri ha dichiarato con candore: «Abbiamo la necessità di un'approvazione rapida e certa». Insomma, il ddl delega deve essere estrapolato dalla palude del Senato, con le buone o con le cattive. «Ci sono i regolamenti parlamentari che non possiamo violare, ma mercoledì al vertice del lavoro europeo deve essere chiara la volontà del governo di voler fare le cose», ha detto.

La partita si gioca su due piani. Il primo è rappresentato dall'incontro odierno tra governo e maggioranza al Senato per cercare la quadra sul testo. La commissione Lavoro ha riscritto l'articolo 18 includendo, di soppiatto, la reintegra anche per i licenziamenti disciplinari e non solo per quelli discriminatori. In pratica, non è cambiato granché rispetto alla riforma Fornero nonostante le premesse iniziali. Il bailamme non ha scontentato solo Confindustria e Forza Italia (inizialmente disposta a collaborare viste le resistenze della sinistra Pd), ma anche la Commissione Europea che, evidentemente, deve aver fatto arrivare a Palazzo Chigi qualche messaggio cifrato. «Troveremo il punto di incontro», ha aggiunto Poletti, fiducioso di ottenere «un testo che tenga conto delle diverse posizioni». Ove per «diverse posizioni» si intende il solco che separa la sinistra Pd (che sabato scorso è scesa in piazza con Sel e Con Maurizio Landini della Fiom) e un Ncd sempre più desideroso di piantare una bandierina che lo faccia uscire dall'anonimato.

Ecco, dunque, che l'incontro di domani alla Sala verde di palazzo Chigi con Cgil, Cisl e Uil con i sindacati potrebbe rivelarsi fondamentale. Questa volta, come detto, sul tavolo non c'è la concertazione (che il premier ha sempre visto come il fumo negli occhi), ma c'è il diktat europeo sul quale l'esecutivo dovrà sapientemente bluffare. «È una sfida reciproca», ha chiosato il ministro del Lavoro. «Con i sindacati - ha precisato - parleremo di innovazione e di cambiamento, anche sul versante della contrattazione». È questa la chiave di volta per superare l'impasse sui licenziamenti disciplinari. Generalmente, infatti, sono gli specifici contratti nazionali a stabilire quali comportamenti del lavoratore dipendente siano sanzionabili con il licenziamento, ma - proprio per questo motivo - sono scritti con formule vaghe per rimettere la vexata quaestio al giudice. Spingendo su un modello di contrattazione decentrata (detassando il detassabile), si potrebbe rimuovere qualche blocco. Idem per la rappresentanza sindacale.

Ma dove trovare le risorse? Il viceministro dell'Economia, Enrico Morando, ieri ha anticipato che «la legge di Stabilità taglierà 15 miliardi di tasse su Irpef e lavoro». La maggior parte delle risorse sarà attinta creando maggior deficit tendenziale (almeno 8-9 miliardi).

Potrebbero l'Ue e l'arcigna Angela Merkel tollerare un simile andazzo, dopo che Renzi ha promesso di riformare giustizia e lavoro e di pagare i debiti della pa nei tempi giusti senza far nulla? Ovviamente, no. Ora, almeno una cambiale con Bruxelles deve essere onorata. Pena nuove sofferenze in Europa nel 2015.

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