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Il Libano e Oriana mi hanno mostrato l'anima nera araba

Io, ex filoarabo, ho cambiato idea dopo aver lavorato in Medio Oriente e compreso il loro odio. Ma la scrittrice aveva capito tutto con anticipo

Il Libano e Oriana mi hanno mostrato l'anima nera araba

Era il 1982 quando partii per seguire la guerra in Libano ed entrare in contatto con il vicino Oriente arabo e musulmano. Ero allora filoarabo e antisraeliano, un po' come tutta la gente di sinistra. Fu un'immersione totale in una cultura, un mondo che credevo di conoscere, ma di cui mi resi conto di non sapere nulla. Soltanto cliché, buoni e cattivi, e piatte banalità. Così viaggiai in Siria, in Giordania, in Egitto e in Israele, mentre alternavo i miei viaggi in America Centrale, il Salvador, il Nicaragua, il Belize. Dopo un paio d'anni mi resi conto con stupore che le mie antiche opinioni e persino i sentimenti avevano preso una piega imprevista. Provavo pena, frustrazione, saltuariamente i miei sentimenti e le mie opinioni si andavano modificando in maniera radicale. Il bello dei fatti è che ti sfidano e ti trasformano.

Che cosa mi stava succedendo? Ero gradualmente entrato in contatto con un lato sempre più oscuro della società araba musulmana. Ogni giorno di più Corrado Cantatore, allora giovane capitano della nostra intelligence, mi portava ai suoi sottilissimi meeting a base di tè verde dolcissimo con la foglia di menta per barattare la loro neutralità, la protezione in cambio della nostra sicurezza. Sia sciiti che sunniti erano legati dallo stesso filo di rabbia, di afflizione, di desiderio di castigo nel sangue pieno di una frustrazione inconsolabile.

Mi andavo rendendo conto, come ogni giornalista occidentale costretto a superare posti di blocco col cuore in gola e una canna di kalashnikov in faccia, di essere considerato un infedele, un nemico, un estraneo, un possibile ostaggio, un mercante. Per ben due volte fui sottoposto alla finta fucilazione, una volta da parte dei palestinesi in fuga da Tripolino di Siria e la seconda volta da una pattuglia siriana il cui ufficiale in comando era sicuro che io fossi ebreo per i miei colori «zinzi» da galileo. Vedevo in moltissimi giornalisti intorno a me un'ossessiva variante della sindrome di Stoccolma, l'istinto che spinge l'ostaggio a solidarizzare col persecutore: giornalisti che si flagellavano chiedendo scusa per essere occidentali. Intuii che il futuro sarebbe stato sempre peggiore e lo scrissi.

Una sera mi telefonò a Beirut la mia collega Miriam Mafai, grande giornalista scomparsa da un anno, e mi passò Oriana Fallaci, che ancora non conoscevo. Oriana fu dolorosamente gentile e asciutta. Stava scrivendo Insciallah , e mi disse che conservava i miei articoli perché mostravano i fondali di cartone di una guerra che noi europei cercavamo di evitare, ma che sarebbe invece stata inevitabile. «Andrà sempre peggio, vedrai», mi disse Oriana. «Vogliono impedirci di usare la nostra libertà e ci riusciranno, con la nostra complicità».

Vedevo giorno dopo giorno che quel mondo arabo musulmano marciava a ranghi serrati in un vicolo con un'unica via d'uscita: una guerra corrosiva e senza fine al nostro Occidente, cui apparteniamo con riluttanza, mettendo a ferro e fuoco i nostri principi, affogando nei sensi di colpa. Il mondo arabo islamico mi sembrava ignorare il senso di colpa, o, meglio, il rimorso, così come ignora l'umorismo che sembra provocare in quella cultura una densa angoscia.

L'angoscia cominciai a provarla io quando mi resi conto che moderati ed estremisti, fondamentalisti irosi e placidi commercianti, sembrano avere un conto aperto con la nostra stessa esistenza al mondo. Potremmo salvarci sottomettendoci e convertendoci, meglio ancora suicidandoci. Nessun arabo che io abbia intervistato, conosciuto e con cui abbia fatto amicizia, chiedeva democrazia e libertà, ma solo vittoria, distruzione dei nemici interni e degli occidentali. Volevano tutti una vittoria «sui crociati», cioè su di noi. Era impossibile parlare di storia attraverso i secoli, perché la storia nel mondo arabo è piatta come un disco e non va avanti, ma va in circolo. Rividi Oriana Fallaci, già malata e autoreclusa negli uffici della Rizzoli sulla 57ma a New York, sopra una delle più belle librerie del mondo, oggi scomparsa. Oriana era affettuosamente sgarbata, sentiva la vita sfuggirle ed era sicura che la sua battaglia non sarebbe servita a nulla: la muraglia dell'ipocrisia occidentale avrebbe fatto da schermo a tutte le gesta assassine, gli attentati, le minacce, la conquista del territorio europeo attraverso remunerate trattative ignobili e segrete. Un paio di volte riuscii a convincerla a sedersi davanti a una minestra kosher in un bar. Poi lei se ne andò, frustrata e triste di fronte all'impotenza dell'ipocrisia, di fronte all'«idòla theatri» della politica politicante. Aveva visto e descritto la mattina dell'11 Settembre 2001 ed era sicura che quella dichiarazione di guerra sarebbe stata negletta e che il mondo si sarebbe adattato. Citammo insieme Il Rinoceronte di Jonesco, commedia in cui tutti diventano rinoceronte adeguandosi alla nuova moda biologica e pochi umani muoiono resistendo chiusi a chiave nelle loro case.

Così, oggi siamo più adattati ed adatti a sopportare: se gli islamici uccidono con un colpo alla nuca i bambini che vanno a scuola, o rapiscono duecento ragazzine di un liceo in Nigeria per avviarle al mercato della carne, la maggior parte dei musulmani certamente disapprova, ma l'indignazione cala e cala anche la nostra voglia di reagire, di dire di no.

Gli arabi musulmani detestano che la civiltà occidentale abbia inventato la Storia mostrata come un vettore con la direzione e il verso del progressivo miglioramento della vita e della convivenza. Il tempo storico dei musulmani arabi è invece piatto. Il mondo ideale per loro sarebbe un eterno presente scandito dalla preghiera e dall'obbedienza passiva.

Quando a Roma alcuni anni fa un arabo mi fracassò la macchina fotografica mentre riprendevo il mercato natalizio di piazza Navona urlando che non avevo il permesso di riprendere immagini delle persone, cercai vanamente di spiegargli che mi trovavo nel mio Paese, nella mia città e che parlavo la mia lingua a casa mia.

Mi rise in faccia e quando mi rivolsi a una pattuglia dei vigili urbani, risposero che era meglio imparare ad adattarmi, perché il futuro sarebbe stato loro e noi avremmo rischiato la galera, una querela, o peggio.

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